Intervista

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ANDRÀ TUTTO… SE SEI OK. UN MODO DI ESSERE TRA PASSATO E PRESENTE

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ANDRÀ TUTTO… SE SEI OK. UN MODO DI ESSERE TRA PASSATO E PRESENTE
739 739 Alessandra Ioalè

Entriamo nel vivo dello spirito OK con cui i membri del Gruppo hanno incontrato la cultura della doppia HH rielaborandola genuinamente. Un incontro, che ha dato la possibilità di cambiamento e di reinvenzione della cultura stessa. Quello spirito, che ha portato a prediligere un’attitudine oltre il lettering, oltre lo stile, oltre la competizione portando i suoi membri a condividere una visione dello stare insieme in amicizia. Con questo spirito, che aleggiava in ognuno di loro rafforzatosi nella riunione degli OK, sono riusciti a realizzare una trasformazione semiotica degli elementi della disciplina writing facendo emergere un nuovo senso tutto italiano di una cultura d’oltreoceano d’importazione. Attraverso i racconti di aneddoti e situazioni passate, ma significative, conosceremo e capiremo meglio cosa vuol dire vivere OK. Un modo di essere, che ancora oggi, a distanza di anni e nonostante la vita sia molto cambiata, rimane in ognuno di loro.

7. Quanto dello spirito del Gruppo OK è rimasto e possiamo ritrovare in ciò che state facendo oggi?

108: Per me molto. A parte che scrivo ancora OK nelle tele, specialmente quando devo metterle in situazione particolarmente istituzionali. Poi faccio ancora molti muri in spazi abbandonati e va beh, ogni tanto in giro quando mi trovo con la gente giusta e con qualche birretta scatta anche il giro di tag. In ogni caso penso che il punto centrale dell’OK fosse l’attitudine e per quello penso di esser più OK adesso di 20 anni fa.

DEM: Per me, la cosa più importante che è rimasta ancora oggi è che molti di noi OK vogliono far tuttora le cose con quello spirito, cercando di agire in maniera completamente naturale, senza avere delle sovrastrutture. Anche parlando con 108, questa cosa di cercare di “tornare indietro”, vuol dire cercare di usare il meno possibile il cervello razionale e il pensamento, a livello di struttura, e cercare di disegnare sempre per esigenza mantenendo la forza naturale dell’atto. Uno si esprime perché deve farlo, e in automatico tutta questa naturalezza si vede all’interno dei lavori stessi. Penso che i lavori di quasi tutti quelli che sono diventati artisti o continuano a lavorare in questo senso siano caratterizzati da questo tipo di approccio, un approccio il più naturale e spontaneo possibile, e senza prendersi troppo sul serio!

Dr.Pira: Quasi tutto quello che faccio oggi viene da quello spirito. Forse se non avessi vissuto quel periodo OK adesso farei qualcos’altro, o forse è semplicemente che ci ho messo lo stesso spirito sia nel Gruppo OK che in quello che faccio ora.

Mr.Mondo: La mentalità con cui mi affaccio alle cose credo che sia la stessa. Oggi come allora amo i graffiti ma continuo a sentirmi un outsider. E questa è una cosa molto OK.

Punto: Molto. Quasi tutto.

Spot: Personalmente trovo che lo spirito ok sia una delle cose più difficili da mantenere viva, ma semplicemente perché ora ragiono troppo su tutto e blocco il flusso della spontaneità. Da anni non faccio più muri, salvo qualche rara eccezione. Sono passato, o forse meglio dire, sono tornato alle tele e al classico foglio di carta, da cui ero partito (https://www.instagram.com/spotflydog/). Non è la stessa cosa. Manca qualcosa e non so affermare di preciso cosa. Forse la spregiudicatezza della gioventù, ma non ne sono del tutto sicuro sia quello. Non ho perso quello spirito, per cui deve esser qualcos’altro. Negli ultimi anni mi sono imposto di migliorare alcuni lati delle tecniche pittoriche, e questo mi ha allontanato molto, senza volerlo, dalla spontaneità. Però è stato un percorso che mi sono sentito di voler percorrere, sempre per la questione del capire se stessi e ste menate li. A parte sto pippotto, OK è sempre stata una filosofia. La si applicava dappertutto, non solo nel dipingere. Per me OK è sempre stata la libertà di potersi esprimere nel modo che ti pare, libero di uscire o di rientrare negli schemi, di inventarsene di nuovi e di seguire principalmente ciò ti da piacere. Penso sia oltre anche al punk. Nel punk se ti presentavi in giacca e cravatta venivi visto in modo curioso. Nella OK non ti sentivi mai fuori tema, fuori luogo, si stava fuori e basta. Per me era come aver trovato la religione definitiva.

Alfano: Dello spirito del Gruppo OK mi rimane sicuramente l’indole spontanea, spesso ludica, alla creazione.

Aris: Credo che lo spirito del gruppo, che sentivo affine ancora prima di entrarne a far parte, continui ad accompagnarmi ancora adesso. All’inizio quello che contava era l’evoluzione della lettera e la ricerca dello stile attraverso la sperimentazione. I primi esperimenti erano rivolti allo sviluppo del lettering, che dalla semplice tag è passato a scritte sempre più astratte fin ad arrivare ai puppet. I primi puppet erano figure riconoscibili, ogni volta che provo nuovi tipi di soggetti, per un po’, li disegno in modo più realistico per poi evolverli in sintesi astratte. Il lavoro diventa una ricerca formale, un bilanciamento tra segno, colore, supporto. Anche la tecnica si è evoluta, in relazione alle contingenze. Le prime tag erano fatte col marker, i primi pezzi a spray e poi una lunga fase sperimentale in cui ho usato di tutto, ho anche incollato pezzi di vetro e specchio sui treni. Fino ad oggi, in cui lavoro soprattutto dipingendo con tempera muraria. Questa attitudine a sperimentare, con le lettere, le figure e le forme è legata a un approccio che è rimasto simile nel tempo e che credo che ci definisca come OK.

8. Raccontatemi un aneddoto che faccia luce sul vostro spirito OK.

108: Di aneddoti ce ne sono infiniti e secondo me sono la parte più interessante del Gruppo, ma purtroppo i più belli si possono raccontare solo a voce in privato. Ce ne sono due brevi che rappresentano l’irreale assurdità in cui ci trovavamo quasi sempre durante le nostre azioni. Quando io e Pira stavamo a Milano passavamo sempre in treno a Pavia, dove vedevamo un muretto che dava sia sulla linea che sulla statale, ma che nessuno aveva spaccato. Un giorno decidemmo di prendere il treno tardi e di andare a Pavia. Arrivati in stazione (non c’era ancora google maps) camminammo in direzione Milano fino alla statale. C’era la nebbia ed eravamo solo noi due, qualche macchina e qualche prostituta lungo la strada. Ad un certo punto passò una volante e vedendoci nel nulla a bordo strada ovviamente ci fermò. La cosa incredibile è che avevamo solo uno zaino pieno di spray, che portavo io. Gli agenti ci fecero un mucchio di domande a bordo strada, non mi ricordo che cosa ci eravamo inventati (magari Pira se lo ricorda), ma qualcosa di non convincente per cui ci perquisirono. Pira di fianco a me e io con lo zaino che cercavo di non muovermi di un millimetro per non fare sentire gli spray, ma sapevo che stava andando a finire male. Loro si guardarono e non riuscirono proprio a capire cosa ci facevamo li. Uno mi fece alzare le mani e mi toccò le tasche. Si guardarono e dissero: “boh…”. Risalirono in macchina e se ne andarono. Non si erano accorti che avevo lo zaino e avran pensato che stessimo andando a puttane a piedi, ma la cosa non gli tornò del tutto. Un’altra volta, invece, andammo nella vecchia yard di Voghera. Eravamo in 3 mi sembra. C’erano i bordeaux dietro a due file di merci praticamente in mezzo alla campagna, finimmo (io ho fatto il pezzo più brutto di sempre), passammo sotto i merci e mentre stavamo attraversando gli ultimi binari, dalla nebbia spuntò un pastore tedesco gigante. Nel panico ci arrampicammo ad uno di quei tralicci dei fili del treno enormi con i contrappesi che iniziarono a sbattere sul metallo facendo come il rumore di una campana di notte nel nulla con alcune case a 100 metri. Noi sopra e il cane sotto che mostrava i denti. Dopo 10 interminabili minuti, in cui si sentiva solo il cane ringhiare, di colpo cambiò umore e iniziò a farci le feste. Scendemmo con cautela e riuscimmo a raggiungere la macchina. Me ne viene una bonus ancora più assurda. Tornando col treno da Milano, Pira scese a Tortona, io proseguii per Alessandria, ma appena il treno ripartì, vidi che dopo il ponte c’erano dei vagoni su un binario molto facile in mezzo ai campi. Chiamai Pira e da Alessandria ripartii subito con gli spray per Tortona. Pira venne in stazione in macchina e facemmo il giro per entrare da un punto tranquillo lontano dalle case. Mentre scendevamo dalla strada, tra le piante vedemmo una figura che veniva nella nostra direzione, ci bloccammo e vedemmo che si trattava di un personaggio in mimetica che maneggiava una catena come fosse un nunchaku in mezzo al nulla. Noi restammo impietriti, sperando che non ci avesse visto, e appena riuscimmo fuggimmo. Ancora adesso mi chiedo cosa stesse succedendo lì in quel momento.

DEM: Più che un aneddoto, posso raccontarti che per un sacco di anni abbiamo festeggiato il Capodanno tra la notte del 5 gennaio a “Castel Pira”. Ogni anno diventava un Capodanno “diverso”, austroungarico, babilonese, alieno, vichingo. Era un momento, un altro modo che ci prendevamo per stare insieme con più gente possibile. Non andavamo praticamente mai a dipingere in queste occasioni. In questa “festa”, veniva eletto ogni volta il presidente OK attraverso una gara di ballo con le mosse più assurde. Il vincitore diventava il presidente, ma non è che il presidente decideva cose. Tutto era abbastanza surreale. Dai discorsi a certe specie di riti che facevamo e certe cose che mangiavamo, come il “succo di troll”. Un’altra particolarità di questa festa, che fa capire ancora di più lo spirito della situazione, era che mentre in sala cambiavamo la musica, in cucina mettevamo sempre e solo la musica progressive trance con esclusivamente Franchino come vocalist, per ore e ore!

Dr.Pira: Non saprei rendere l’idea con un episodio solo, funziona meglio accostandone un paio, perché è proprio il contrasto tra situazioni completamente diverse che definisce lo spirito OK. Per esempio: alla fine degli anni 90 ero andato a Grosseto a dipingere. Una sera avevamo dipinto in due posti illegali, ma era ancora presto ed era stato troppo facile, perciò ci eravamo messi a parlare di modi più difficili per dipingere. Trovammo per caso due scatole di cartone enormi e ci sembrarono perfette: facemmo dei buchi per le braccia e per gli occhi, ci disegnammo sopra delle facce e così travestiti andammo a fare bombing in centro. Non c’era molta gente in giro, era inverno, ma non erano neanche le 11 di sera e qualche passante c’era – ma comunque noi non potevamo vederlo. Né lui (secondo il nostro ragionamento) avrebbe potuto riconoscerci né fermarci. Chi fermerebbe una scatola con la faccia disegnata sopra che vaga per il centro dipingendo con lo spray? Ci siamo ovviamente fotografati in azione per testimoniare il gesto artistico e anche il fotografo indossava una scatola, per cui ci sono quattro foto buone su venti. Tutte queste idee ci venivano in mente senza l’ausilio di droghe tra l’altro, ed eravamo sani mentre le facevamo. Per fortuna nessuno effettivamente ci ha fermato, in più abbiamo scoperto che effettivamente era molto difficile fare dei pezzi comprensibili quando sei dentro una scatola. Per quanto avessimo i buchi per gli occhi, era difficile stando vicino al muro vedere quello che stavi facendo. La spinta non era quella di vincere una sfida, ma di trovarsi in situazioni pazze. Un’altra volta sono andato a dipingere con Spot in un posto sperduto lungo il fiume Scrivia, dove si arrivava solo facendo un sacco di strada in bici in mezzo alla boscaglia. In quel caso, pensavamo che chiunque fosse arrivato laggiù – e non so dirti per quale motivo uno ci debba andare, perché non ci arrivano né sentieri né strade – non avrebbe potuto spiegarsi perché qualcun altro aveva dipinto un graffito su un’enorme pietra. Sicuramente avrebbe avuto un sacco di domande senza risposta. Ero in fissa con i templi rupestri e le antichità misteriose e mi immaginavo che avrebbe fatto un effetto simile, pur sapendo che probabilmente nessuno sarebbe arrivato in un posto simile.

Mr.Mondo: Quando avevo 22 anni vivevo a Milano. Una mattina andai a casa di Suede che all’epoca viveva anche lui a Milano insieme a 108. Lui si prese bene perché mi vide arrivare con una giacca un po’ bizzarra, ma poco fashion e avevo in mano la gazzetta dello sport. Ci preparammo e andammo a dipingere in una yard di giorno. Erano appena uscite le tinte fluo, che ci appassionarono subito. Erano quasi fastidiose quando le utilizzavi come se fossero dei colori normali. Optammo per dipingere la motrice anche se avevamo un intero interregionale davanti, perché già all’epoca mi prendevo malissimo se i pezzi non duravano. Ci eravamo fatti l’idea che le motrici le pulivano meno quindi andammo a dipingere la motrice del treno. Io scrissi Murales e cominciai a fare le foto. Era un periodo in cui fra i vari hobbie avevo quello delle bolle di sapone e chiesi a Suede di farmi una foto da poser mentre facevo le bolle davanti al pezzo. Quella foto la misi su Triceratops. Quando sviluppai le foto mi resi conto che avevo dimenticato la L nel pezzo e avevo scritto Muraes anziché Murales. Mentre ero in yard e facevo il pezzo in freestyle non me ne ero neanche accorto. Comunque mattinata epica in pieno Stile OK direi. Ci siamo scelti una marcia motrice anziché i vagoni pettinati. Colorazione nel vero senso della parola. Nel senso che eravamo più attenti a fare un’esplosione di colori in quanto tale anziché concentrarsi sulla giusta combinazione cromatica. La scritta Murales era perché la gente i graffiti li chiamava Murales. Mi gasava quindi scrivere Murales su treno anche se poi scrissi Muraes per sbaglio.

Punto: I due eventi che hanno visto i ragazzi OK protagonisti di una performance altamente OK e che hanno segnato di più la cultura dell’aerosol art in Italia sono stati le jam di Modena e di Firenze, credo si trattasse del periodo 2000-2002. In entrambe le occasioni ci venne data la possibilità di dipingere delle pareti intere. Ognuno si concentrò per qualche minuto su un particolare del muro, ma ogni venti minuti cambiava posto e si metteva a dipingere in un’altra parte della parete. Il risultato fu bellissimo e ricordo che eravamo davvero felici.

Spot: Una delle cose più belle che l’esperienza mi ha lasciato, è senz’altro quella sensazione meravigliosa che provavo quando vedevo la faccia delle persone alle convention, quando vedevano per la prima volta i nostri pezzi, o non sapevano di preciso cos’era lo stile ok. Quel misto di sbigottimento e incredulità, che non sapevano se ridere o se piangere, e alla fine ti facevano i complimenti per tagliar corto. Quando arrivavamo noi alle convention era come se arrivava il pulmino dei ritardati. La gente non sapeva mai come gestirci. Stupendo che ti davano le bombolette montana fighe e costose in mano, e si aspettavano un wild style, e tu gli uscivi con la madonna di Courmayeur e Claudio Lippi su un elicottero. Fatto a cazzo oltretutto. Ecco questa è una di quelle cose che per me sono impagabili.

Alfano: Racconterò di quella volta in cui sono stato incoronato membro ufficiale del Gruppo OK. Mi trovavo a Codogno con Dem e 108 a dipingere un muro commissionatoci dal Comune. Ad un certo punto arriva anche Pira. Finiamo il muro e ci dirigiamo verso un posto in campagna dove c’è la festa di compleanno di una tizia, che non ricordo chi fosse, amica di Dem. Lì ci sono altri OK (se non ricordo male Punto, Blyz, Camillo e forse anche Peio e Mondo). La serata promette bene. Si danza e si fa freestyle in modo ossessivo. Ad un certo punto (come spesso mi è capitato in quel periodo) intono una serie di pezzi neo-melodici (di cui ai tempi ero appassionato). Qui credo di avere conquistato i cuori dei presenti, che decidono, con mia enorme commozione, di incoronarmi membro ufficiale del Gruppo OK. La serata continua fino alla mattina. Ad un certo punto tutti se ne vanno. Prendo la mia auto (una Punto Van 2000 turbo diesel) esco dal parcheggio e in un centinaio di metri mi ritrovo accartocciato contro un palo. Mollo la macchina in campagna. Procedo a piedi per qualche chilometro, ancora ubriaco e sfinito dalla serata, verso il paese più vicino. Lì trovo un bar dove degli anziani stavano giocando a carte. Entro, prendo un caffè, esco, rubo una bici, parto per casa mia distante circa 20 chilometri. Dopo due ore riesco a rientrare, stanco, felice e finalmente OK.

Aris: Ero salito ad Alessandria per lavorare al progetto di un libretto da fare in collaborazione con 108, quando mi trovavo lì ci siamo incontrati anche con Pira, invece di andare a fare i graffiti insieme, come in qualsiasi crew, decidiamo di andare a esplorare gli argini di un torrente. Sul percorso incontriamo molti animali e tanta vegetazione interessante, a un certo punto ai margini di un campo incolto, appesa in cima ad un palo troviamo la testa di un coniglio verde di peluche. Subito pensammo che fosse un segno per una celebrazione in onore del torrente Scrivia. Con il coniglio offerto in sacrificio abbiamo raccolto dei bastoni, combinandoli con dei pennacchi di foglie, da usare come scettri e ci siamo trasformati nei sacerdoti di questo rito pagano.

9. Dall’esprimervi in, con o attraverso il Gruppo, ad oggi che, nonostante esista e gli OK vi si riconoscano ancora, la situazione è un bel po’ diversa. Come è cambiato il senso di appartenenza al Gruppo? Vi manca quel tipo di condivisione e dello stare insieme?

108: L’OK non si è mai sciolta, ma ci vediamo poco e soprattutto non capita mai di vederci in gruppo. A me manca molto il periodo in cui riuscivamo a beccarci e a volte a partecipare a qualche evento in gruppo. Purtroppo eravamo in tanti con teste diverse (era anche il bello quello), ma tutti che volevano fare di testa loro e non siamo riusciti a trovare il modo di pacificare questa cosa. Comunque se non per dipingere ci vediamo ancora per diversi motivi. Per un periodo io, Pira e Spot suonavamo insieme in un gruppo hardcore, i Bhopal, con cui abbiamo fatto anche un disco e molte date, poi abbiamo suonato insieme molte altre volte per altri progetti elettronici.

DEM: Penso che crescendo ognuno ha preso la sua strada. Continuiamo a sentirci, so che alcuni vanno a dipingere graffiti insieme. Io, per una questione di stare sempre in giro per lavoro, non sono più riuscito ad andare con gli altri, continuiamo a sentirci e a vederci, con qualcuno ci si sente meno. Il senso di appartenenza esiste, perché sai di essere del gruppo OK, ovviamente non c’è più quel momento di condivisione così sentito. Si sta meno insieme, ci si vede di meno, però il senso di amicizia e il fatto di essere degli OK quello rimane.

Dr.Pira: Forse mi manca passare più tempo insieme, ma quando mi ritrovo con gli altri vedo che quello spirito è sempre là, magari coperto da un po’ di strati del tempo o delle cose della vita, ma è sempre lo stesso. Per un po’ abbiamo provato a darci una struttura politica interna un po’ più avanzata rispetto alla monarchia primitiva che dilaga nell’ambito del writing (quanti king ci sono?): ci siamo eletti ministri OK dei rispettivi ministeri interni, e nominavamo un Presidente unico, eletto partendo da una regolare e democratica Gara di Balletti. Secondo me era una grande idea, ma questo ciclo è durato solo qualche anno, e in seguito a varie crisi di governo causate principalmente dall’assenteismo abbiamo provato la strada della setta religiosa segreta. Avevamo anche una cosmogonia (quella che ti ho raccontato nella seconda domanda) ma non riuscivamo a sintetizzare i nostri principi mistici, per cui la setta è rimasta un po’ vaga. Ma tutti abbiamo dentro lo spirito OK. Puoi uscire dal Gruppo OK, ma il Gruppo OK rimarrà dentro di te. Congiungi il pollice e l’indice, estendi le altre dita, alza le mani al cielo, e urla OK! Lo puoi sentire anche tu.

Mr.Mondo: Si certo. A me manca molto la freschezza di quegli anni. La cosa bella però è che, anche se di rado, cerchiamo ancora di dipingere insieme e comunque quando capita ci incontriamo da qualche parte. Io poi sono un grande fan del lavoro e delle produzioni dei miei compagni OK anche all’infuori dell’ambito Graffiti. Continuano a essere una mia ispirazione e motivazione.

Punto: Sono cambiati i contesti in cui viviamo nel privato ed è difficile trovare il tempo per stare insieme, ma quando capita di riuscire a stare insieme, non sembra diverso da quello che era allora. Come dicevo all’inizio, non è un senso di appartenenza che ci lega, ma un modo di essere. Cambiano le situazioni individuali, può cambiare la percezione che ognuno di noi ha degli altri ragazzi OK, ma ognuno di noi è sempre stato e resterà sempre OK.

Spot: Assolutamente sì. Mi mancano le ore a parlare di cose prive di un senso logico, mi mancano i rituali propiziatori alle naiadi, ma è come dire, mi manca un periodo della mia vita che è stato così. Lo stare insieme. Come ho premesso all’inizio, la OK era principalmente quello. Un manipolo di persone unite dallo stesso spirito e dallo stesso modo di volerlo esprimere. Se l’avessi letto sui libri, mi sarebbe piaciuta sicuramente come storia. Ma l’ho vissuta. Ed è stato fighissimo. Parlo al passato non perché considero morta l’OK, ma semplicemente perché non condividendo più lo stare insieme, non può più essere definita una crew. Ma penso che si sia trasformata in un movimento. Seppur molto piccolo come realtà. Ognuno lo porta avanti nella propria vita, ma non escludo nemmeno l’ipotesi che si possa tornare a dipingere insieme, in qualche modo. Sempre e solo se la Divinità OK vorrà.

Alfano: Penso che il senso appartenenza rimanga, anche se in modo più astratto rispetto al passato. Abbiamo intrapreso tutti percorsi piuttosto netti e, almeno per quanto mi riguarda, faccio fatica a tenere insieme i legami. Mi piacerebbe però trovare un momento o un pretesto per lavorare ancora insieme.

Aris: È vero che ci vediamo solo di tanto in tanto, ma i momenti magici passati insieme sono fonte di ispirazione in ogni azione, il Gruppo è il committente morale di ogni pezzo. Purtroppo siamo un po’ sparpagliati geograficamente, ma come è scritto nel testo che racconta la storia del gruppo, anche se lo scopo principale è l’amicizia, uno degli obbiettivi secondari è pur sempre la conquista del mondo!

Fine terza parte (3/3)

Parte 1 / Parte 2

Alessandra Ioalè
Storica dell’arte, ricercatrice e curatrice indipendente. I suoi interessi spaziano dalle arti elettroniche e digitali all’arte grafica, dall’illustrazione al fumetto italiano e allo studio del graffiti-writing e in generale dell’arte urbana. È autrice del libro “Panico Totale. Pisa Convention 1996-2000”, ricostruzione storica della manifestazione toscana che contribuì allo sviluppo del graffiti-writing italiano degli anni ‘90. Scrive articoli per diverse testate online e cartacee e saggi critici per diverse pubblicazioni. È curatrice di diverse mostre e attività culturali per diverse gallerie e spazi espositivi italiani. Vive a Pisa e lavora in tutta Italia.

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OK IL GRUPPO E’ GIUSTO. TRA AUTOPRODUZIONE E PRATICA ESPLORATIVA DEI LUOGHI URBANI

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OK IL GRUPPO E’ GIUSTO. TRA AUTOPRODUZIONE E PRATICA ESPLORATIVA DEI LUOGHI URBANI
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Per Asger Jorn, i graffiti1 sono «una forma artistica che sfida l’istituzionalizzazione della creatività e il suo isolamento dalla società […] [e che induce] al comune bisogno d’espressione come attività umana fondamentale»2. Lo stesso bisogno comune, che ha mosso tutti i membri del Gruppo Ok ad agire insieme nello spazio urbano agli inizi del ‘00. Se pensassi gli Ok come un organismo, li paragonerei alla Physalia, la specie più conosciuta di Sifonoforo, formata da una colonia di polipi e meduse, che per la loro sopravvivenza devono cooperare. Il Gruppo Ok si costituisce proprio come una creatura formata da diversi corpi con personalità creative eterogenee, ma uguali nello spirito, che li guida nell’espressione spontanea di se stessi, senza sovrastrutture, a cercare qualcosa che all’epoca sembra ancora non esistere sulla scena italiana. Come avete letto nella prima parte dell’intervista, sono molti gli input provenienti dalle altre culture di strada e da tutti gli altri ambiti dell’arte, come la musica e il cinema. Per questo, l’esigenza di giocare e avere a che fare con tutte quelle influenze li porterà a intraprendere la pratica dell’autoproduzione parallelamente a quella esplorativa e di azione nei luoghi urbani in una dimensione di avventura ogni volta diversa e affascinante. Creando una rete analogica, che con l’avvento di internet diventa digitale, amplificheranno il loro potenziale espressivo nella condivisione di esperienze con la moltiplicazione di connessioni e scambi a distanze prima impensabili.

4. Provenivate dagli anni ’90 che in Italia erano caratterizzati dalla forte presenza dei centri sociali a cui era collegata tutta una certa autoproduzione underground. Esperienze essenziali per voi, ma molto lontane dalla cultura Hip Hop americana e più vicine a quella Punk. Poi quando vi siete formati come OK nei primi del ’00 è arrivato FotoLog. Me ne vorreste parlare?

108: Sono due periodi diversi secondo me, il punk e i centri sociali come cose interessanti e vissute continuativamente sono più riferibili agli anni ’90. Io in realtà sono salito per la prima volta sul palco con un gruppo rap locale a 15 o 16 anni, ci chiamavamo LAK ed era il 93/94. All’epoca l’Hip Hop sembrava più punk del punk, una novità assoluta che conoscemmo tramite lo skate. In Italia era arrivato con le Posse, quindi con una base altamente politicizzata. C’erano anche gruppi veramente fighi come gli Isola Posse. Per un certo periodo era il fenomeno che caratterizzava i centri sociali. In ogni caso praticando lo skate ascoltavamo prevalentemente punk e hardcore. Quando il rap ha iniziato a diventare commerciale come quello americano con tutta la sua estetica macho, personalmente mi sono buttato tutto sul punk e su altre correnti musicali per me più interessanti. I centri sociali erano comunque un po’ diversi da quello che sono oggi, erano luoghi di incontro e di cultura, qui in Alessandria ce n’erano due, che ogni weekend facevano concerti e in settimana anche incontri e film. Per gente che all’epoca era adolescente come me è stato importantissimo. L’aspetto politico era d’avanguardia (le cene vegane per esempio) e sempre accompagnato da quello culturale. Mi ricordo che c’erano sempre i banchetti con i dischi e con i libri e vhs della Shake per esempio, poi ci venivano a suonare da tutto il mondo. Avevamo il nostro angolo internazionale a 5 minuti da casa. I primi graffiti belli in Alessandria li ho visti lì. Kalmo e Tnt da Casale già nel ’92 facevano cose che sono potenti ancora oggi. Inoltre, prima di fare un muro bisognava parlarne e a volte ci dicevano che imitavamo gli americani di colore, ma qui eravamo in Europa e non nel Bronx e la cosa all’epoca ci irritava parecchio, con il tempo però mi è servito a dar valore e pensare sempre a quello che facevamo. L’autoproduzione del periodo “fotocopie per necessità” in generale è alla base di quello che faccio ancora adesso insieme poi a molta arte visiva e non. Restando nel mondo dei graffiti dal ‘95 al ‘98 avevo fatto (con l’amico Tibo) 4 numeri di una fanzine che si chiamava Subliminal Art, tutta fotocopiata in 50-100 copie. Anni dopo è uscito il numero 5, avevo lasciato che alcuni amici di Genova continuassero la cosa con un magazine stampato, ma io non c’entravo più niente. Comunque parliamo del periodo pre-OK. Pira faceva già da anni i suoi “Fumetti della gleba” fotocopiando innumerevoli numeri e qualche volta gli davo una mano, visto che vivevamo insieme. Io in particolare facevo cassette e poi Cdr musicali autoprodotti, continuo a farli ancora oggi, musica e non musica underground. Punk, grind, black metal, noise, drone, ambient, sempre con copertine fotocopiate e tutto duplicato a casa (https://larvario.bandcamp.com/). Mi sono messo anche a serigrafare magliette con un mio amico, in modo iper grezzo, e facevamo bootleg di gruppi dark, industrial cose così, in bianco e nero. Ovviamente mi sono anche autoprodotto decine di fanzine e libretti fotocopiati come 108, specialmente quando era una cosa che interessava solo a qualche punk e a nessun altro, ma continuo a farne. Come tante altre cose, in Italia purtroppo non c’era una gran scena di fanzine e micro editoria, la cosa è un po’ cambiata negli ultimi anni credo. Con l’arrivo di internet, nel ’98-’99 insieme a Pira, ragazzo del computer, abbiamo fatto siti in html su spazi web gratuiti. Il primo sito con roba nostra si chiamava ABX3000. Quella era l’avanguardia con cui ci siamo connessi con gente come Stak, Honet e altri in giro per l’Europa. Direi che quello è stato il periodo d’oro dell’OK, primi anni ’00, poi è arrivato Fotolog, che è stato probabilmente il primo social, ma completamente diverso da Facebook. Lo aveva solo chi dipingeva o aveva bisogno di dire qualcosa semplificando le cose e creando una rete europea di gente che voleva andare oltre ai graffiti tradizionali. Da lì poi è nata la famosa “Street art” che poi si è evoluta (o involuta) in qualcosa di completamente diverso.

DEM: Fotolog ho iniziato ad usarlo dopo che si erano formati gli Ok. Credo di averlo cominciato ad usare nel 2003, quindi noi già dipingevamo anche come gruppo. Fotolog fu un modo per vedere nuovi stili e approcci all’arte fatta in strada, e poi a condividere esperienze di vita perché, entrando in contatto con un sacco di altri artisti, ho iniziato a girare di più, sia in Italia che all’estero e dall’estero venivano in parecchi a trovarmi. È stato molto positivo da quel lato lì ed è stato importante anche dal lato stilistico, perché ci siamo nuovamente contaminati con altri artisti che cercavano di sperimentare. Se già come Ok volevamo mischiare per fare delle cose particolari, con l’arrivo di Fotolog ci siamo fatti influenzare da tutta una serie di altri lavori ed esperienze di altri artisti. Per quanto riguarda i centri sociali, io andavo alle serate della Pergola, del Cox18 e del Deposito Bulk, li frequentavo Abbominevole, Fost, Mork, Ozmo, Flood e altri artisti e writers. Lì ho dato una mano ai ragazzi di Tora Bora (una specie di negozio di spray abusivo all’interno) e dello squat Malamanera ad organizzare il festival Street Madness dove erano venuti vari artisti di Milano, ma soprattutto, altri europei. Mi ricordo che la murata collettiva che facemmo in questo centro sociale fu una delle prime davvero sperimentali del Gruppo Ok. In quell’occasione c’era anche Zosen di Barcellona, a tutt’oggi un mio caro amico, col quale si parla tuttora molto. L’amicizia con lui mi ha permesso di andare spesso a incontrarlo e dipingere insieme anche a Kafre, Kenor, Tom14, Pyu, Ovni e altri artisti spagnoli. Molti di loro venivano dall’esperienza degli ONG, Ovejas Negras, avevano un forte aspetto politico e facevano delle murate coloratissime realizzate da diversi artisti contemporaneamente, gli stili si mischiavano e intercambiavano, in molti dei loro muri non riuscivi benissimo a distinguere chi avesse fatto cosa. Questo mi piaceva un sacco ed ha avuto una grande influenza su di me. Sempre attraverso Fotolog avevo conosciuto gli UNO, una crew svizzera di Neuchatel, che a sua volta faceva parte di un gruppo ancora più grande, gli ZOO (di cui ero membro). Gli Zoo, che avevano anche molti elementi in Francia, si erano praticamente formati attraverso questi scambi partiti dal social network.

Dr.Pira: Non seguivo molto FotoLog, ma il writing si sovrapponeva facilmente a qualsiasi network, essendo esso stesso una rete analogica. Forse lo stesso discorso si può fare con l’autoproduzione, che in fondo era già una forma di rete, o un modo per costruire reti, se preferisci. Avevo iniziato quasi contemporaneamente a fare fanzines di fumetti, distribuendole in giro ai concerti o all’università, dove capitava. L’ho sempre trovato un bel modo per canalizzare le idee e fare nuovi amici. Penso che nessuno di noi avesse un approccio politico di “controcultura” in tutto quell’ambito di attività. Era semplicemente divertente. Io e 108 avevamo anche fatto delle fanzines di graffiti all’epoca. Ho sempre pensato che quel modo di fare le cose fosse quello migliore, perché mi faceva sentire libero e di conseguenza mi faceva venire voglia di sviluppare le cose in modo più creativo. Sembra banale, ma il contesto è essenziale. In quel momento, in provincia, la totale assenza di esempi da seguire nell’ambito del writing (come in quello del fumetto “alternativo”) non ti portava a seguire lo scopo di diventare “bravo” o riconosciuto, ma piuttosto di procedere verso un’idea che ti eri fatto tu, in modo del tutto casuale. Per esempio, quando avevo iniziato a dipingere non conoscevo altri writer, ma mi ero fatto l’idea che tutti gli amici partecipavano alla creazione di un graffito. Al tempo andavo ogni giorno a skateare, e un giorno pensavo che sarebbe stato giusto avere dei graffiti nel posto in cui ci ritrovavamo: forse l’avevo visto in qualche film tipo Trashin’ – corsa al massacro. Quindi, ho raccolto i soldi tra gli amici che frequentavano il nostro punto di ritrovo, di fronte a una scuola media, perché avrei fatto un graffito che sarebbe stato di tutti. Non avevo calcolato che qualcuno della scuola avrebbe potuto sospettare che l’avessimo fatto noi, pensavo che “si facesse così”. Dopo qualche anno, quando ho conosciuto 108, sono rimasto shoccato dal fatto che i writers si pagassero le bombolette da soli e dipingessero in posti che non avrebbero potuto vedere ogni giorno. Avevo imparato una cosa nuova. Questo spiega come abbiamo fatto le nostre scelte da lì in poi: non avevamo idea di come si facesse né l’autoproduzione, né il writing, semplicemente facevamo delle cose perché pensavamo che più o meno “si facesse così” – e innanzi tutto perché era divertente.

Mr.Mondo: Non ho mai utilizzato Fotolog, My Space o ogni altra piattaforma digitale dell’epoca. Mi sono affacciato a Instagram negli ultimi anni. Mi piace perché si trova un sacco di materiale, ma mi fa anche un po’ strano. Mi sentivo più figo quando guardavo solo qualche fanza e frequentavo gente o scambiavo foto solo di persona. Per quanto riguarda l’autoproduzione, avevo solamente fatto una mini fanzine nel 2003 chiamata Triceratops dove avevo messo più che altro foto di amici e di gente che trovavo molto innovativa in quegli anni. Vista adesso sembra quasi una fanzine di Street Art, ma in quegli anni il movimento non era ancora nato e l’uso di simboletti o adesivi di alcuni writers era una cosa che mi intrigava e sembrava fresca. Secondo me, ci sono delle chicche, come il primo speciale a Blu quando ancora faceva i puppet a bomboletta e Dumbo quando disegnava degli omini con le teste a palazzo. I centri sociali li ho frequentati poco e più che altro proprio per andare a dipingere con gli amici in tranquillità. Non sono mai stato vicino ai movimenti politici e ho frequentato realtà più prettamente vicine ai temi dell’ambientalismo e del vegetarianesimo. Purtroppo la bomboletta inquina sotto tutti gli aspetti e con l’ambiente non c’entra nulla, ma è bella e irresistibile. La uso ancora, cerco di compensare un po’ riempiendo i pezzi e i fondi spesso a rullo.
Punto: Pur frequentando i centri sociali, noi eravamo lontani e in generale piuttosto critici verso l’attivismo politicizzato. La nostra era una passione estetica verso i colori che aveva solo bisogno di muri grandi in posti dove nessuno ti poteva infastidire; i centri sociali erano perfetti per questo. Io non ho mai prodotto materiale che non fossero i disegni e le foto, che tenevo soprattutto per me.

Alfano: Sono stato introdotto a FotoLog da Dem, che già lo usava da diverso tempo. E’ stato uno strumento decisamente utile, soprattutto per stringere relazioni con nuovi artisti (o in ogni caso gente che faceva graffiti/dipingeva sui muri) sparsi per il mondo. Prima di FotoLog potevi conoscere gente affine frequentando le jam o le yard, tramite reti di contatti, oppure scrivendo ad Aelle (una delle prime riviste hip hop in Italia) che aveva una sezione dedicata agli annunci di writers di varie regioni. FotoLog è stato indubbiamente uno strumento che ha facilitato e colto la necessità di uno scambio culturale più ampio rispetto agli standard di quel periodo. Grazie a FotoLog, ad esempio, ho avuto modo di conoscere il lavoro della CAP crew (che è stato per me un incontro fondamentale in quegli anni) e altri “personaggi” decisamente interessanti.

Aris: In effetti il legame con la cultura hip hop per me è stato più forte soprattutto nella seconda metà degli anni ’90. Ascoltavo i gruppi italiani, come Colle der Fomento, Sangue misto. Oltre alla musica per me era importante comprendere i testi, anche per questo i gruppi americani mi interessavano meno, non riuscivo a seguirli, poi nella scena della mia città c’erano alcuni amici che rappavano, andavamo ai loro concerti. Molto spesso le feste erano nei centri sociali, che anche per i graffiti erano diventati punti di incontro, zone franche dove si poteva dipingere anche in pieno giorno e si trovavano sempre nuovi lavori di altri da vedere. Le serate Hip Hop si alternavano a concerti punk o a musica tecno ed era inevitabile che ci sarebbe stata una contaminazione. Poi a partire dagli anni ’00, con la diffusione sempre maggiore di Internet e dei social, il cambiamento ha avuto un’accelerazione esponenziale non solo per la circolazione delle foto, ma anche come luogo d’incontro. Nei primi anni in cui facevo graffiti ci si incontrava in qualche piazza, al parco, nelle hall of fame, portando dietro il book dei bozzetti per confrontarsi, ascoltando musica, passando del tempo insieme. Piano piano molto di tutto ciò si è spostato online, si sono ampliati i confini geografici, il confronto si è allargato a un pubblico più ampio. Come per tutti i cambiamenti ci sono stati vantaggi e svantaggi, per esempio uno degli aspetti dei graffiti è quello di essere illegale e fuori dagli schemi, oggi queste due caratteristiche devono passare attraverso un canale caratterizzato dal tracciamento, dal controllo e la raccolta dei dati, aspetti con cui, prima di altri, il mondo del writing ha dovuto farci i conti. Personalmente ho avuto la mia pagina Fotolog, ma non la utilizzavo molto, perché non mi sembrava lo spazio adatto per mostrare i miei lavori, invece lo usavo come spazio per seguire i writer che mi piacevano di più e tra questi c’erano diversi membri del gruppo OK. In seguito, grazie a Flickr, ho deciso di mostrare di più anche le mie cose, così mi è capitato di scambiare chiacchiere con diverse persone con le quali sono nati dei rapporti di amicizia e delle collaborazioni.

5. Ad interessarmi sono due le declinazioni che può assumere lo spazio urbano: “pubblico, ma non-civile” VS pubblico-abbandonato. Avete agito in entrambi, ma quale prediligevate e perché?

108: E’ una cosa legata all’età credo. Quando ero più giovane volevo fare solo lettere e metterle dove erano più visibili. Poi c’è stato il grande periodo degli adesivi e dei poster, anche in quel caso non aveva alcun senso attacchinare in zone abbandonate, anzi gli stickers ci davano la possibilità di attaccarli in pieno giorno in pieno centro. Poi man mano ho preferito andare negli spazi abbandonati, ma diciamo che restando nel campo dell’OK non è mai stato un problema, ci piacevano entrambi gli aspetti dello spazio pubblico come ci piaceva fare una tela, un video o una fanzine. Almeno io me lo ricordo così e soprattutto essendo OK non ci è mai piaciuto il vandalismo estremo.

DEM: Comunque c’è stato un momento in cui come Ok giravano anche parecchi treni. Io più che treni, facevo tante cose in luoghi abbandonati e lungo linea ferroviario. Comunque sì, abbiamo agito in entrambi i luoghi perché ci piaceva tutto. Perché, per quanto riguarda la parte illegale, l’atto in sé era anche abbastanza antisocietà; per quando riguarda gli spazi abbandonati, invece, trovavi quella dimensione in cui potevi esprimerti e fare lavori molto più grandi rispetto a quello che era stato fatto prima e avere più tempo e quindi un’assoluta tranquillità per poter sperimentare. Poi ci piaceva la dimensione dell’esplorazione, infatti con molti andavamo nelle fabbriche abbandonate, facevamo anche foto, osservavamo pure le architetture. Poi, devo dire che, soprattutto nella zona da dove provenivo io, c’era davvero la possibilità di avere a disposizione degli spazi infiniti e dei muri con già una loro storia (fabbriche degli anni 30/50/60/70), che secondo me erano più belli e anche romantici da dipingere rispetto alle hall of fame o ai capannoni industriali, in cui comunque dipingevamo ugualmente. Se entri in una fabbrica abbandonata, il tempo è un po’ come se si fermasse e hai modo di concentrarti maggiormente su quella che è la forma artistica che uno vuole mettere in piedi, in più c’era anche la possibilità di stare lì per ore ed ore e poter fare anche delle mezze festicciole.

Dr.Pira: Mi ha sempre divertito di più il contesto illegale, per l’assurdità dei luoghi e delle situazioni e la dimensione di avventura che mi faceva vivere. Mentre vagavo nella nebbia con la temperatura sottozero alla ricerca di un deposito, che mi sembrava di aver visto da un treno, mi veniva sempre in mente che quello che stavo facendo era completamente pazzo – per qualche motivo, come ti dicevo prima, mi sembrava più logico lavorare in una stazione spaziale, nel 2001 – e collegare le due idee mi creava un cortocircuito mentale che mi portava a pensare che avrei potuto fare qualsiasi cosa in quel momento, o nella vita. Non so spiegartelo meglio di così. A Berlino andavo a dipingere i treni con una sorta di task force militarizzata (che è l’unico modo di farlo senza venire arrestati da quelle parti) e quando arrivavo al treno pensavo: beh, tutto questo è così pazzo che ora, già che ci sono, disegnerò lo sfondo di mattoni sul treno. Anche le jam e le hall of fame mi piacciono, ma per un motivo diverso: lì la creatività è stimolata dal fatto che, qualsiasi cosa disegnerai, stai innanzitutto passando un bel pomeriggio tra amici. I luoghi abbandonati li ho frequentati di meno, ma mi piacevano anche quelli, era un bel modo per andare in posti che altrimenti non avrei mai visto.

Mr.Mondo: Personalmente ho sempre cercato di dipingere su muri molto visibili. Mi è capitato pochissime volte di farli in posti abbandonati, che magari risultassero molto belli in foto, ma che non si vedevano. Sicuramente dipingendo in provincia hanno meno visibilità. Spesso, anche se li vedono, sono così disinteressati ai graffiti che è come se non li vedessero. Però ci tenevo e ci tengo ancora a farli in luoghi di passaggio e dove è difficilissimo che vengano buffati. Mi piace passare in bici davanti ai posti dove ho dipinto anche a distanza di tempo. Sorseggiare una bibita davanti un mio pezzo dopo qualche giorno che l’ho fatto è il massimo della goduria. A volte mi chiedo se in effetti mi piaccia veramente dipingere o più che altro mi piace sciallare e bermi una tisana davanti al pezzo vedendo la gente che ci passa vicino anche se distrattamente.

Punto: Credo di aver agito poco sull’abbandonato, ma non facevo molta attenzione al valore dello spazio urbano. Volevo disegnare, e farlo in un posto abbandonato rischiava di voler dire che sarebbe stato difficile rivedere il mio disegno, cosa cui io tenevo molto. Quindi la scelta cadeva soprattutto su posti che potessero essere visibili da me, a prescindere da quale fosse la declinazione dello spazio urbano su cui agivo. Inoltre ho disegnato molto sui treni, che hanno un ruolo diverso nel paesaggio urbano.

Spot: Gli altri non so, per me l’importante era avere a disposizione un muro su cui fare qualcosa. All’epoca facevo già tele, ma non mi davano la stessa soddisfazione di un bel muro grosso da colorare. Di solito ci si beccava con qualcuno e si decideva il posto, altre volte si girava giornate intere magari in bicicletta, per trovare qualche edificio semi distrutto. Io facevo pezzi persino sotto i ponti dello Scrivia (il fiume, o ciò che ne rimane, di Tortona). Luoghi in cui non sarebbe passato nessuno se non qualche tossico o qualche segaiolo solitario. Non era solo marchiare il territorio, si va be c’era un po’ anche quello, ma per poesia; era un desiderio irrefrenabile di dipingere, era solo quello. Di un sacco di pezzi non ho nemmeno le foto, e comunque c’erano già le camere digitali all’epoca, erano appena uscite e io ce l’avevo, ma non era quello lo scopo. Quei pezzi sono persi per sempre, o i muri saranno scrostati, o non ci saranno nemmeno più i muri. Ma non è mai stato un problema, quello. Quando avevo fatto un muro ero felice. Se poi lo si era fatto insieme a qualcuno, di solito si passavano sempre dei momenti piacevoli. Per me quella era la cosa principale. Poi ricordo l’avvento del Fotolog, li iniziai a condividere qualche foto dei pezzi, ed era figo perché la gente si esaltava. Io facevo un pupazzetto storto che diceva “vi odio tutti” e alla gente piaceva. Cioè come fai a non prenderti bene?

Alfano: Ho agito trasversalmente in entrambe gli ambiti fino al 2004/2005. Successivamente mi sono approcciato alla pittura murale di grande formato, spinto anche dall’esigenza di esprimere nuovi contenuti e di trovare un veicolo utile anche a dare sfogo a ciò che si potrebbe definire disagio esistenziale (o investigazione del malessere). Per fare ciò era necessario avere molto spazio e tempistiche elastiche (mi è capitato di lavorare nello stesso spot, sullo stesso lavoro per diversi mesi). Inoltre in quel periodo ero piuttosto povero e dalla mie parti (basso lodigiano) era il periodo in cui sono esplosi i cantieri dell’alta velocità, dove l’RFI abbandonava tonnellate di materiali e strumenti di cui regolarmente facevo incetta. Questo mi ha permesso di dipingere molto e in grande. A questo contesto riconduco una tra le fasi più importanti del mio percorso artistico ed esistenziale.

Aris: Per i miei interventi spontanei di solito non mi è mai interessato molto lavorare in strada, in luoghi frequentati e ben visibili. Molte delle mie opere sono difficili da trovare, richiedono una ricerca, un’esplorazione, preferisco aree dismesse, fabbriche abbandonate, cisterne di metallo o vecchi edifici, dove in seguito all’abbandono la natura sta riprendendo il sopravvento. I primi anni in cui ho iniziato a dipingere personaggi mi interessava l’effetto inaspettato che poteva fare incontrare queste figure in questi luoghi proprio come se fossero gli abitanti che popolavano quegli spazi. La fase dell’esplorazione è molto importante, credo che nei graffiti anche la collocazione e il contesto siano parte dell’opera. Penso, ad esempio, ad alcuni pezzi che sono diventati leggendari più per i luoghi in cui sono stati fatti che per il loro stile, come Noce in piazza duomo a Milano. Quando dipingo in spazi abbandonati, le superfici su cui mi trovo a lavorare non sono mai neutre come un foglio o una tela bianchi. Ci possono essere irregolarità, crepe, saldature, piante, cambi di colore, scritte o loghi. Questi sfondi entrano a far parte del lavoro come un tutt’uno, non tenerne di conto significherebbe non considerare l’opera nel suo insieme. Cercare di nascondere queste irregolarità, coprendole col colore per farle sparire dallo sfondo, significa comunque subirne l’influenza; mentre modifico e deformo la composizione per inglobare e mascherare qualcosa, che non voglio appaia nell’insieme, sto facendo un compromesso. A volte proprio queste irregolarità sono state spunto per la costruzione di forme nuove. Negli spazi dimenticati l’opera ha un’interazione con lo sfondo, la conformazione del muro, l’ambiente e la realtà architettonica circostante, mentre nelle situazioni in cui lavoro in strada a contatto col pubblico cerco di tenere di conto di tutti fattori ambientali e anche, trattandosi di luoghi abitati, delle persone che si interfacceranno con l’opera nel quotidiano. La pratica di esplorare l’ho perseguita sia da solo che con i vari gruppi e oltre alla comune passione per i treni, direi che ci sono molte modalità di esplorazione. Dal mio punto di vista, la visione OK era un viaggio buffo e magico in luoghi comuni che nascondono meraviglie, per esempio ricordo di una passeggiata con 108 e Useless Idea nei bunker sopra Genova.

6. Le azioni di allora erano meno consapevoli di quelle di adesso. Quali erano le vostre riflessioni di allora in relazione a quelle di adesso più consapevoli riguardo la riappropriazione di uno spazio urbano come atto politico attraverso un segno lasciato sui muri urbani e che differenza c’è, se per voi esiste, tra l’agire nella prima e nella seconda tipologia di spazio urbano?

108: Sinceramente non ho mai pensato, nemmeno a 20 anni, che spaccare un muro di una casa appena dipinto o di un palazzo storico fosse una cosa giusta. A volte facevamo dei giri di tag e bombing, ma penso fosse una cosa precedente all’OK. In ogni caso, credo che quello sia il centro della cosa, quando fai graffiti ci sei dentro ed è impossibile capirlo se sei fuori. Non credo ci sia niente di politico in quello. È bello da fare e basta. Questa cosa può essere letta in modo sociale e quindi anche politica, ma non è direttamente politica, non ho mai capito chi dice che lo sia. Sto parlando di tag, non di slogan politici. Penso sia una conseguenza dell’alienazione e della direzione sempre più individualista verso cui sta andando la nostra società, per cui sentivamo il bisogno di affermare noi stessi anche scrivendo il nostro nome in giro e facendo vedere quello che eravamo capaci di fare senza dover passare tramite i soliti giri. Penso che quello sia stato un punto fondamentale per l’OK e per quel periodo lì. L’atto politico della riappropriazione degli spazi per me è legato al dipingere negli spazi abbandonati, è l’equivalente di occupare una casa abbandonata quando uno non ha un tetto sotto a cui dormire. In Italia in particolar modo l’arte e la cultura sono considerati come la cosa più inutile, messi sempre all’ultimo livello. Non esistono laboratori pubblici, studi e spazi in cui gli artisti, specialmente i giovani, possano lavorare e organizzare eventi. Questa situazione è inammissibile e gente come noi non ha mai voluto abbassarsi a fare i ruffiani, quindi credo che prendersi quegli spazi sia la cosa più giusta da fare per noi, tra l’altro siamo stati i primi visto che venivamo da una delle zone più industrializzate e poi dismesse d’Italia. L’arte contemporanea ci sta arrivando adesso, scopiazzando quello che gente come noi ha fatto per decenni. Adesso come adesso lo preferisco sia dal punto di vista estetico che concettuale, ma non si può affrontare un discorso così complesso in una risposta sola.

DEM: Più che “meno consapevoli”, il motivo che ci spingeva a dipingere era il volersi esprimere liberamente e “senza nessuna regola”. Tutto era abbastanza impostato e cercavamo di uscire dagli schemi e canoni stilistici dell’epoca, ma la consapevolezza di quello che stavamo facendo, secondo me, è arrivata dopo, prima c’era l’atto in sé, si dipingeva per necessità personale, non per altri scopi. A un certo punto ci siamo resi conto che un po’ lo facevamo anche apposta, dare fastidio agli altri writer, attraverso un uso degli spray diverso. Ci riconoscevano per determinati tipi di stili, che abbiamo in parte lasciato per cominciare a fare dell’”altro” con pezzi che stilisticamente non “capiva” nessuno (alcuni nemmeno noi 🙂 ). Di base però lo facevamo per stare bene, per stare insieme divertendoci e sperimentando, senza nessun finto intento di ribaltare il sistema o cambiare le carte in tavola del writing e senza aspettarsi di contaminare le persone che vedevano i nostri lavori. Sapevamo benissimo che non sarebbe cambiato un cazzo. In un modo o nell’altro poi è diventato anche un atto politico, ma non nasceva come tale o con questa consapevolezza. Non era riappropriazione dello spazio urbano. Ciò che ci interessava era esprimere noi stessi, soprattutto cercare di farlo nella forma più pura e senza schemi dati da altri. Quello che dicevamo era: stiamo insieme, sperimentiamo, osiamo! Soprattutto osare e fare cose idealmente mai fatte prima da altri, o almeno provarci, era importante non porsi nessun limite.

Dr.Pira: Non ho mai considerato il concetto di appropriazione rispetto ai graffiti. L’idea di appropriarsi o riappropriarsi di qualcosa credo sia legata agli ambiti che concernono la “sopravvivenza”, nel senso più ampio del termine. Per esempio, se vuoi che il tuo nome sopravviva alla concorrenza degli altri writers e delle altre crew, allora tendi a pensare che devi “prenderti” dei muri o dei treni. Noi non avevamo quel genere di problema, specialmente all’inizio, perché dipingevamo in provincia ed eravamo gli unici a farlo in quella zona. Quando incontravo un altro writer, lo consideravo subito un potenziale amico: avevamo un sacco di cose da dirci in più rispetto a un mio compaesano. Lo stesso mi capitava se conoscevo un altro skater o qualcuno che ascoltava la mia stessa musica. Ho viaggiato parecchio da solo in quegli anni (tra l’altro, pre-internet) e per prima cosa cercavo un negozio di bombolette, uno skate shop o qualche posto dove suonassero, e lì conoscevo la gente del posto. E’ stato strano per me e 108 quando siamo andati ad abitare a Milano e abbiamo conosciuto un po’ di crew locali: erano amichevoli, ma spesso si sentiva un tono vagamente paternalistico – dopotutto eravamo i “ragazzi di campagna” – oppure un certo senso di sospetto. Tutto più che comprensibile, lì c’erano meno muri e meno yard pro capite, ma all’inizio non capendo la situazione mi sembrava strano: ma come, facciamo entrambi graffiti, questo non dovrebbe renderci automaticamente amici? Questo approccio ti dovrebbe far capire quanto non lo consideravo un atto politico. Quando incontravo altri writer e si andava a dipingere, per me era una fantastica gita, senza nulla togliere all’interesse che ho dal punto di vista puramente artistico, del disegno, ma piuttosto togliendolo alla spinta politica. Credo che quando parlavo del writing in termini politici, all’epoca, era solo per cercare di sedurre le ragazze antagoniste (con scarsi risultati, tra l’altro). Per quanto riguarda l’agire in spazi non civili o abbandonati, per me erano diversi solo rispetto al livello di rischio che implicava. Per una serata più avventurosa sceglievo i posti illegali, se invece volevo fare qualcosa di più rilassante andavo nei posti abbandonati. Anche se devo dire che a questi ultimi preferisco una bella hall of fame con un bel prato, alberi e magari un baretto vicino.

Mr.Mondo: Ho sempre cercato e prediletto spazi visibili. Che fossero abbandonati o no non ci davo troppa importanza. Era più che altro la visibilità e l’impatto del luogo quando ci camminavi o passavi vicino ad interessarmi. Non direi che erano meno consapevoli di adesso, perché ero molto più addentro alla cosa e ovviamente anche attivo. La consapevolezza di adesso è solo perché sono più “anziano” e guardo alle cose che facevo in quel periodo da semplice osservatore. Non come se li avessi fatti io. Ultimamente sto facendo molti bozzetti. Direi quasi se non addirittura di più che allora. Solo che all’epoca dipingevo più di notte che di giorno e soprattutto dipingevo anche su metallo.

Punto: Io non vedo differenza tra l’agire su uno spazio non civile o abbandonato, tranne per il fatto che l’abbandonato è un esercizio, poco più di un disegno fatto in casa che però non rivedrò più. Per me non è mai stato un atto politico, ma un gesto privato. Lo facevo perché a me piaceva farlo e mi piaceva rivedere il mio disegno. Io passavo giornate intere insieme ai disegni che avevo appena fatto e non godevo particolarmente a farli vedere in giro. Ho sempre percepito quello degli altri come gesto di appropriazione di spazio pubblico e capisco che tale gesto di appropriazione possa essere letto come gesto politico, ma il mio era un gesto creativo privato che, per me, non aveva e non ha nessun valore nella dimensione pubblica. Succede anche oggi.

Spot: Non so proprio, non l’ho mai vista come una cosa politica e non ne sarei in grado. La mia era ed è una sorta di “ribellione” al conformismo, di cui la politica ne è solo una parte. Aver bisogno di grandi superfici per potermi esprimere mi portava automaticamente ai muri. Che a volte poteva essere un cosiddetto atto vandalico, me ne rendevo perfettamente conto, ma ciò che mi spingeva a questo era ben differente dal mero desiderio di “fare un dispetto”. D’altronde è sempre stato così nella mia vita. Prima disegnavo di nascosto da mia madre che voleva farmi studiare, poi ho continuato a disegnare di nascosto da “laggentenormalevaalavorare”. Come se il disegnare fosse una cosa che non va bene.

Alfano: Ho iniziato a disegnare sui muri spinto dalla curiosità. Nel posto dove sono cresciuto (un paese di 1200 abitanti in piena campagna) ad un certo punto è comparso sul muro del campo sportivo un disegno, fatto a spray, di Alberto da Giussano con la spada sguainata (logo della Lega Nord). Ai tempi non ne colsi il contenuto politico e mi limitai a chiedermi in che modo fosse stato realizzato. Da lì a poco venni a capo del dilemma ed iniziai a disegnare le mie prime lettere senza una particolare finalità. Nel tempo ho assunto un atteggiamento da “bomber”, taggavo ovunque e dipingevo molto in strada. Questo fu plausibilmente indotto da dinamiche adolescenziali di vario genere. Il passaggio alla pittura murale (vedi risposta 5) invece rispondeva ad altre necessità. Facendo autoanalisi del mio percorso, riconduco le esperienze del primo periodo (quello adolescenziale) alla necessità di mettere a nudo la mia individualità, di sviscerare una fragilità relazionale legata soprattutto ai contesti di gruppo (con i graffiti ho avuto le prime vere esperienze di socialità) e di scontrarmi con i dogmi familiari e di sistema. Questa attitudine ha sviluppato delle contraddizioni nel momento in cui la mia passione si è trasformata in mestiere. Ho passato un breve periodo a dipingere grandi muri su commissione per vari festival di arte urbana, ma ho smesso praticamente subito, poiché ogni volta che mi sono approcciato a questo genere di progetti, mi chiedevo ossessivamente se tutto ciò avesse senso per le comunità locali, quale fosse lo scopo di sbattere in faccia, tutti i giorni, alla gente qualcosa con la quale magari non aveva intenzione di relazionarsi. Trovo che questa prassi sia viziata da una sorta di impeto megalomane di curatori e artisti (in estremissima sintesi). Quindi ho iniziato a partecipare solo a progetti in cui era previsto un dialogo con le comunità locali, dove ci fosse esigenza di costruire qualcosa. Quindi, non trovo che dipingere sui muri fosse esattamente un atto politico, sicuramente, fino ad un certo momento, di controcultura. Credo che l’ultimo margine di evoluzione per l’arte urbana sia il lavoro di riappropriazione degli spazi delle comunità locali.

Aris: A parte forse proprio il primo periodo, non credo che le azioni del passato fossero poco consapevoli. Le fonti erano difficili da trovare, ma la curiosità era tanta e, proprio il fatto di essere in pochi e di interfacciarsi con qualcosa di nuovo, ti portava a farti più domande. Tutto era più complicato e per questo richiedeva più tempo. Come dicevo prima, all’inizio ero legato alla cultura Hip Hop, che aveva già una sua storia e i suoi insegnamenti, poi c’erano le “regole” del writing, che ti portavano ad essere responsabile per quello che stavi facendo. Per esempio nessuno del mio gruppo si sarebbe mai sognato di dipingere un treno prima di aver migliorato lo stile, essere diventato pratico attraverso lo studio su carta e su muro. Tutta la produzione di graffiti su treni passeggeri, bombing o pezzate con lettering, che ormai fa parte del mio passato, la considero separata dai lavori astratti sui merci, i puppet a figura intera contestualizzati in un ambiente, o le murate più complesse. Quello che è cambiato è soprattutto il pubblico di riferimento. Prima le azioni erano fatte per se stessi, per la propria crew e per la propria tribù, in questo caso, tra i vari fattori, parlerei di riappropriazione. Le opere erano parte di un mondo, di una comunità alternativa con delle regole tutte sue (con i suoi pregi ed i suoi limiti). Credo che a rappresentare un atto politico non sia tanto la questione di lasciare un segno nello spazio urbano, ma piuttosto quella di costruire quel mondo, quella comunità. Quando non faccio lettering di solito non lavoro nello spazio urbano, ma piuttosto in spazi in disuso o non luoghi. Invece, nel caso di wallpainting fatti per festival o convention, l’azione si svolge nello spazio urbano, all’interno di progetti più complessi dove l’organizzazione dialoga con le istituzioni, i cittadini e gli artisti. Diciamo che emanciparsi dal dogma ci ha dato una svagata consapevolezza nell’azione.

Fine seconda parte (2/3)

Alessandra Ioalè
Storica dell’arte, ricercatrice e curatrice indipendente. I suoi interessi spaziano dalle arti elettroniche e digitali all’arte grafica, dall’illustrazione al fumetto italiano e allo studio del graffiti-writing e in generale dell’arte urbana. È autrice del libro “Panico Totale. Pisa Convention 1996-2000”, ricostruzione storica della manifestazione toscana che contribuì allo sviluppo del graffiti-writing italiano degli anni ‘90. Scrive articoli per diverse testate online e cartacee e saggi critici per diverse pubblicazioni. È curatrice di diverse mostre e attività culturali per diverse gallerie e spazi espositivi italiani. Vive a Pisa e lavora in tutta Italia.

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e in principio fu l’OK tra divertimento, sperimentazione e provocazione

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e in principio fu l’OK tra divertimento, sperimentazione e provocazione
741 741 Alessandra Ioalè

“Essere creativi è fare la propria festa con tutte le cose, attraverso una ricreazione continua. […] Non c’è libertà artistica senza il potere della festa.” 1 Così recita uno dei punti del “Manifesto di gennaio” scritto dal Gruppe SPUR, l’ala tedesca dell’IS, nel 1961.

Definito come una dichiarazione di festa e divertimento permanente, più di trent’anni dopo sembra che i suoi enunciati riprendano vigore rinnovati nelle azioni del Gruppo Ok, evocate in questa intervista e guidate da uno spirito che non contempla competizione interna né esterna, quanto piuttosto uno scambio senza tensioni, non escludente, né esclusivo nel segno della sperimentazione. In effetti, parlare di sperimentazione Ok vuol dire avere a che fare con qualcosa che non è studiato a priori per distinguersi e competere all’interno della scena writing italiana, ma nasce soltanto dal divertimento di creare insieme rielaborando e dando forma genuina a quel caos di influenze artistico-culturali a cui erano sensibili. Se c’è un coro, il Gruppo era ed è OK, perché ne è sempre stato fuori. Fin dal nome a cui hanno scelto di appartenere: non una crew, bensì un gruppo di amici prima che di writers, sui cui natali pare ci sia anche lo zampino dell’edizione del 2000 di Panico Totale, a cui ho reso omaggio QUI per il suo 20° anniversario in relazione all’omonimo libro che ho scritto nel 2016.

Questa è la prima parte dell’intervista, che ho avuto la fortuna di fare a 8 membri del Gruppo, adesso non rimane che immergervi nello spirito Ok e accendervi!

1. Già dal nome vi siete distinti nel panorama del writing italiano. Perché Gruppo Ok?

108: In realtà ci chiamavamo anche OK Crew o Ragazzi Ok, Ok Boys e in alcuni casi anche Fondazione Ok. L’importante è l’OK. E’ una domanda per Pira visto che è stato il patriarca della cosa, ma in ogni caso OK era il modo più breve, diretto e ricordabile per esprimere il concetto di essere persone OK. Il mondo dei graffiti è pieno di gente che si prende troppo sul serio, di atteggiamenti macho, di guerre tra crew. Noi ci siamo trovati tra persone che amavamo scrivere sui muri, ma non eravamo quello. Con questo non voglio dire che fossimo ragazzi perfetti, anzi, molte volte abbiamo creato problemi, molti ci ricordano infatti per aver creato più volte il caos o quando nei nostri muri mettevamo simboli poco politicamente corretti. Penso che tutti fossimo (e spero siamo) contro la violenza e gli atteggiamenti violenti, certo c’era della provocazione e la voglia di essere i peggiori. È molto difficile spiegare cos’era l’OK in poche parole.

Per esempio, c’era anche questa cosa della politica e del politicamente corretto che, all’opposto del machismo di poc’anzi, a volte diventava proprio insopportabile con quei personaggi che sembravano avere la verità divina a cui tutti dovevano sottostare e si comportavano come dei preti. Anche quelli non li sopportavamo molto e li combattevamo con “velate” provocazioni. A pensarci adesso tutte queste cose oggi sono peggiorate moltissimo, ci vorrebbero proprio dei nuovi OK! A vederla oggi, eravamo dei surrealisti, anarchici e iconoclasti, ma nel vero senso della parola. Vedevamo le foto dei writer in yard tutti perfetti stilosi e allora delle volte ci vestivamo apposta in modi buffi. Mi ricordo che Blyz si metteva le giacche da balera gialle o rosa di suo zio, quelle anni ‘80 con le spalline enormi! C’era sì della provocazione, ma il punto centrale era divertirsi e fare gli stupidi tra di noi, non facevamo queste cose per essere al centro dell’attenzione, infatti non ci chiamavano quasi mai a fare cose importanti (a parte il povero Pietro da cui abbiamo fatto qualche disastro).

DEM: Perché siamo italiani e non americani, quindi crew, Posse etc anche no. Inoltre, noi per gruppo intendevamo un gruppo di persone, non un gruppo di writers, perché il writing veniva dopo, prima di tutto veniva l’amicizia.

Dr.Pira: All’inizio ci chiamavamo semplicemente “l’OK” o “i ragazzi OK”, o anche “Ok crew”. Poi abbiamo pensato che Gruppo Ok fosse più bello. Un po’ perché ci piaceva in italiano – anche se “ciurma Ok”, che è la tradizione più filologica di “crew”, non era male – e un po’ perché ci ricordava i nomi che si davano certi collettivi artistici di avanguardie più classiche. Il Normal Group, per esempio, era un collettivo tedesco degli anni ‘80 che aveva quasi il nostro stesso approccio.

Mr.Mondo: Su questo devo dare il merito agli altri. Comunque utilizzare parole in italiano aiuta a distinguersi dalla maggior parte di sigle e nomi in inglese che girano nei graffiti. Personalmente trovo che suoni anche bene e dia l’idea di chi siamo.

Punto: OK è un aggettivo che indica un modo di essere, personalmente ci considero ragazzi OK più che membri del Gruppo OK. Credo di avere visto per la prima volta la dicitura “Gruppo OK” a Modena in occasione di una jam in cui tra l’altro ci divertimmo tantissimo.

Spot: Non saprei. Penso non si badasse molto a queste sottigliezze, si badava molto di più a farci i muscoli, ad esempio. Alcuni si erano giustamente convinti che schiacciare più forte i tappini degli spray permetteva un risultato migliore, e per farlo bisognava essere più forti. Mi pare che qualcuno si era messo a fare palestra proprio per questo scopo.

Alfano: Non ricordo precisamente perché sia stato scelto il termine “gruppo” in alternativa a “crew”, ma posso ipotizzare il percorso logico che ha portato a questa scelta, che immagino sia riconducibile allo spirito del “collettivo”, di un gruppo di persone che fa cose insieme (generalmente pitture parietali) con una finalità ludico/ricreativa che rimanda all’idea di un’eterna ricreazione (nell’accezione dell’intervallo in ambito scolastico). Questo, come dice il mio amico Vincenzo Costantino, è la modalità ideale per vivere intensamente e con purezza il sentimento della passione. Curiosità: ricordo che tra le varie opzioni fu proposto anche il termine “comitato”.

Aris: Sono entrato nel Gruppo in un periodo successivo alla sua fondazione e mi sono perso la genesi del nome.

2. Come un organismo, il Gruppo si è formato ed è cresciuto. Mi direste da quali crew provenivano i membri della prima formazione e come questa si sia trasformata e stabilizzata nel tempo?

108: Io mi ricordo solo l’inizio: con Pira ed altri amici dell’alessandrino ci trovavamo per fare muri, tag, etc già da metà anni ’90 chiamandoci PRC. Praticamente era già l’OK, ma eravamo limitati in zona. Prima volevamo fare le lettere belle pulite classiche, poi con quella nostra mentalità, guardando gente come Lemon a Milano, gli scandinavi e alcuni parigini, abbiamo iniziato anche a rendere le lettere più sperimentali, meno americane, e fare cose che non erano nemmeno più lettere. Ad un certo punto è nata l’OK e se ben ricordo all’inizio era l’unione tra PRC e AKS dal lodigiano.

DEM: Ci siamo conosciuti per la prima volta a Orléans, vicino Parigi. Lì viveva un nostro amico, Camillo, che all’epoca non dipingeva neanche ed era amico di Suede. Quando io e Blyz andammo a trovarlo, Suede era già lì insieme ad altri ragazzi dell’NBW, come Punto, Shark e un mix di skaters e altre persone. Il Gruppo Ok nasce, infatti, da un mix tra la PRC, la AKS e l’NBW, nel tempo poi abbiamo invitato anche altre persone a pittare. Si era trasformato in un gruppo che metteva dentro anche tanti elementi esterni al mondo del writing canonico ed alcuni di questi si erano messi anche a dipingere solo per divertimento. Alla fine è rimasto chi veramente dipingeva e aveva voglia di dipingere, mentre con gli altri abbiamo continuato a vederci, ma in una forma più di incontro per stare insieme. Del Gruppo Ok sono Suede, 108, Peio, Blyz, Alfano, Aris, Kane, Mondo, Cook, Mine, Punto, Shark, Diry, Agro, Spot, Eat, Oboe, Wombo, Lillo e DEM.

Dr.Pira: Inizialmente il Gruppo Ok è nato come la fusione della PRC di Tortona / Alessandria (principalmente io, 108 e Peio) e la AKS del lodigiano (Dem, Blyz e Cook e Mondo erano i più attivi in quel momento). Ma se vuoi fare il paragone naturalistico dell’organismo, colgo la palla al balzo e ti metto tutto in prospettiva Piero Angela. Il Gruppo Ok è nato esattamente nel Caos Primordiale che ha segnato la fine del writing tradizionale in Italia e i primi albori della nuova ondata, se così si può definire: l’ultima edizione del Panico Totale a Pisa, nel 2000. Io e Blyz avevamo deciso di fondere le nostre due crew e di arruolare “tutte le persone simpatiche” che incontravamo quel giorno. Visto come è andato a finire quel festival, è difficile ricostruire i dettagli: i ricordi di chiunque sia stato là quella sera sono confusi e culminano con la distruzione misteriosa di un intero capannone, in cui mi sono risvegliato con Dem e decine di altri writers il mattino dopo. Era uno scenario da adduzione aliena, ma sono certo che gli extraterrestri non siano coinvolti in questo caso. Il motivo per cui sottolineo quella serata è che noi non eravamo l’unico Gruppo Ok. C’era un’altra crew OK di Roma, con un approccio diametralmente opposto al nostro. Per diversi anni sembrava ci volessero sfidare, per via del fatto che avevamo lo stesso nome, e noi rispondevamo che per lo stesso motivo avremmo dovuto fare amicizia. Poi la cosa è finita lì. Solo dopo una decina d’anni abbiamo scoperto il motivo di questa misteriosa coincidenza, per merito di una ricostruzione storica di Blyz: la sera del Panico Totale aveva invitato il Trota a far parte del Gruppo Ok. Lui deve averci incluso qualcun altro, ma né nessuno di noi, né nessuno di loro si ricordava nulla il giorno dopo – e qui uno potrebbe concludere che il motivo di questa amnesia sia un’adduzione aliena, ma come ho detto non c’entravano gli alieni, imputerei piuttosto il tutto a un blocchetto di free drink. Quindi noi ce ne siamo tornati a nord, convinti di essere l’unico Gruppo Ok, e gli altri a sud, convinti anche loro di essere l’unica Ok Crew. Dal Caos Primordiale erano nati i due principi opposti. Non che uno sia meglio e l’altro peggio: l’Ok di Roma era più classica, noi più destrutturati, e l’opposizione di principi è la base dell’evoluzione, no? Ma soprattutto, trovo che sia molto bello, se non indispensabile, avere una mitologia epica all’origine del proprio Gruppo. Tutte le civiltà ne hanno una, non vedo perché noi dovremmo farne a meno. Tutto quello che segue è storiografia più pragmatica, se vuoi posso raccontarla, ma è più accademica.

Mr.Mondo: Mi ricordo che c’è stato un periodo che la cosa era andata fuori controllo e non ci capivo molto neanche io su chi eravamo e quanti eravamo, perché ogni volta che incontravamo uno che ci stava simpatico gli dicevamo che era un OK. Spesso ad insaputa degli altri membri del Gruppo, per cui mi è capitato anche di scoprire che alcune persone erano membri del gruppo Ok dopo alcuni anni. Anche questa era una cosa molto da Gruppo Ok diciamo. Non è mai stato fatto un censimento, per cui credo che non lo sappiamo bene neanche noi.

Punto: Non credo ci siano state grande trasformazioni nel tempo, diciamo che dopo un primo periodo più ermetico c’è stato un momento in cui abbiamo allargato le maglie della setta e altri adepti si sono naturalmente aggiunti.

Spot: Quando sono entrato nella Prc (power rangerz crew), la crew della nostra provincia che poi si è unita con le altre creando la Ok, c’erano già 108, Pira, Peio, Sid e un altro tizio che poi è sparito e non se ne sa più nulla (che comunque faceva robe geniali) mi pare fosse circa il ‘98. In quegli anni io disegnavo e producevo musica elettronica, che all’epoca, era ancora una cosa di nicchia. Ricordo che incontrai il Pira in giro per Tortona, non lo vedevo da anni. Uno di quelli con cui praticamente sono cresciuto da ragazzino, con cui si skateava insieme, per capirci. Rimanemmo ore a parlare delle nostre produzioni musicali (anche lui produceva roba elettronica e aveva fondato pure un etichetta, la storica Cervellomeccanico Records). Da li a ritrovarmi dentro un flow di produzioni artistiche, visive, musicali, il passo è stato breve. Per me è stato trovare semplicemente altre persone che stavano facendo quello che volevo fare io. E’ stata una cosa naturale ed automatica. L’evoluzione della Ok, se di evoluzione si può parlare, è sempre andata così, era come una cosa che doveva nascere e avere un periodo di esistenza, ma lo ha scelto lei, noi lo vivevamo solamente e abbiamo permesso che accadesse.

Alfano: Potrei dire di essere un OK di seconda generazione, quindi non ho vissuto la trasformazione dal principio, in ogni caso ad un certo punto alcuni di noi si sono cimentati nella pratica della pittura murale di grande formato. Questo momento, che corrisponde al periodo a cavallo tra il 2003 e il 2005, segna (a mio avviso) l’inizio di un percorso di ricerca stilistica e di contenuto individuale (sicuramente più netta per alcuni componenti del gruppo).

Aris: Il primo nucleo OK nasce nel 2000, i fondatori sono: Dem, Blyz, Suede, Emon (108), poi proprio come dici tu la crew cresce e nel 2007 anche io ne entro a far parte, in occasione di una edizione di Icone, “Format C”, che si teneva in un paesino vicino Modena. Dipingevamo una stazione degli autobus, fra i vari invitati c’erano diversi componenti OK: 108, Pira, Dem e Peio. Lì una sera a cena abbiamo brindato alla mia incoronazione come membro del gruppo! Molti dei componenti del Gruppo li avevo già conosciuti in precedenza. Con Dem avevamo dipinto insieme, in combo con Run e Merlo, un muro all’Elettro+ (un centro sociale a Firenze). Seguivo da tempo i lavori di tutti, sia per i graffiti sperimentali, che per l’evoluzione nella direzione di forme altre rispetto al lettering che avevano avuto alcuni di loro. Trovavo che avevamo un percorso e un’attitudine affine, poi, conoscendoci, ci siamo trovati bene anche a livello personale.

3. Quali erano i vostri riferimenti culturali? Quale era il vostro atteggiamento verso questi input e come siete riusciti a sentirli, mescolarli e a farli vostri?

108: Per quanto mi riguarda, visto il periodo e quello che facevo, guardavo i graffiti degli anni ’90, pre-internet diciamo, con molti stili ben distinti e sempre originali. In parallelo però, frequentando certe situazioni, soprattutto i concerti, guardavo i poster e tutta quella roba fotocopiata con impaginazione analogica, le copertine dei dischi, i “graffiti” dei Crass e l’estetica punk di Washington. Anche i fumetti, visto che il mio sogno per anni è stato fare il fumettista. Amavo certe cose giapponesi come Akira, Ghost in the shell e ovviamente Miyazaki, molta roba europea come Moebius, Bilal, Toppi. Impazzivo per il fumetto underground, quello americano poco, ma Sandman è ancora oggi una delle cose che preferisco. Con Pira poi collezionavamo tante cose bizzarre, come i flyer delle sette religiose e di altri gruppi strani, che nel periodo pre-internet si trovavano in giro. Da questo e da altri interessi ancora, come quello per tutta quella scena cyber-politica-filosofica anni 80-90, è derivata una certa estetica e l’idea di mettere in giro cose incomprensibili per destabilizzare la gente in strada. Per me la visione di Decoder, il film di Klaus Maeck diretto da Muscha a metà anni ’90, al Subbuglio in Alessandria è stata fondamentale. Il film, pazzesco, era un po’ il documento cinematografico di tutta quella scena, dentro c’era gente come W.S. Burroughs, gli Einsturzende Neubauten, Christiane F., Genesis P-Orridge. Insomma tutto quell’immaginario che in qualche modo per anni mi sono portato dietro. Un’altra cosa era l’interesse per l’arte preistorica e per le forme di arte religiosa anche esotiche e per l’art brut – outsider art. Avevo appena iniziato ad interessarmi alle filosofie orientali (ma non solo) da cui viene il mio nome.

DEM: Come riferimenti culturali era un mega mix. Ascoltavamo sia metal che punk, che reggae, che dub, rap, hip hop, tekno, D’n’B, doom e stoner. Cercavamo di mixare un po’ tutto, come anche la cultura skate con tutta una serie di riferimenti ai centri sociali di un certo tipo, all’anarchia, anche a livello politico più esteso. Il nostro atteggiamento era quello di sperimentare e divertirci, quello di osare sempre all’interno della sperimentazione.

Dr.Pira: Penso che nessuno di noi avesse in partenza un approccio classico ai graffiti. Non disdegnavamo le tradizioni, ma semplicemente non vi eravamo implicati più di tanto. Una cosa che sicuramente avevamo tutti in comune era il pensiero che qualsiasi cosa fossero prima i graffiti, noi lo stavamo facendo in un luogo e in un’epoca completamente diversa. Non so dirti perché, ma spesso quando andavo a dipingere attorno all’anno 2000 mi tornava in mente 2001 Odissea nello Spazio, che è stato uno dei miei film preferiti fin da bambino. Pensavo al fatto che mio nonno faceva il contadino, che gli aerei per lui erano un miracolo affascinante, e che se gli avessi chiesto se avrei potuto fare l’astronauta nel 2000, a lui non sarebbe sembrato strano. Invece, mi trovavo a rischiare di essere arrestato per fare dei disegni su dei mezzi di trasporto parcheggiati in aperta campagna. L’assurdità di questa associazione, che non so spiegare meglio di così, mi sembrava di gran lunga più affascinante di tutta la mitologia del Writing anteriore. E’ vero che non conoscevo nemmeno bene la storia del Writing al tempo, ma anche quando l’ho studiata più a fondo è sempre stato l’elemento surreale a colpirmi e quell’elemento è insito nel fatto stesso che qualcuno si impegni così tanto per fare dei disegni così assurdi, oltretutto mettendosi a rischio. Non puoi cogliere questo paradosso se non ti mantieni mentalmente distaccato dalla tradizione e noi eravamo in effetti nella posizione ideale. I Writer milanesi, avendo la metropolitana, potevano immaginarsi in un contesto simile a New York. Potevano trovarsi una crew rivale e giocare alle gang del ghetto. Noi avevamo più probabilità di essere inseguiti da cinghiali o contadini. Ci perdevamo nella nebbia per cercare le yard, e dipingevamo alle sagre del vino. Alle sagre, gli anziani apprezzavano il nostro stile di pittura molto più di quanto facessero gli altri writer alle jam, che diffidavano di noi pensando che volessimo provocarli o che non fossimo in grado di dipingere un pezzo classico. In più, gli anziani alle sagre ci pagavano gli spray e ci offrivano da mangiare e da bere. Come puoi non far tuo un contesto culturale simile? E sentendo spontaneamente un distacco dalla forma classica, ti rendi conto che le possibilità sono infinite. Tutti gli input che ci arrivavano entravano immediatamente a far parte del nostro concetto di writing, da quel punto in poi. D’altronde, le origini del writing non sono esse stesse una concatenazione di casualità? Facevano i puppet in quel modo perché copiavano quello che avevano a portata di mano. Con questo non voglio dire che è sbagliato ispirarsi solo alla tradizione del graffito classico, ma non è nemmeno obbligatorio farlo.

Mr.Mondo: Credo che quello che distingueva maggiormente il Gruppo Ok fosse l’approccio al dipingere e lo stile dei nostri pezzi ne era una naturale conseguenza. Molti facevano riferimento a noi per lo stile “matto”, ma non credo che nessuno di noi dipingesse con l’intento di fare una cosa per forza strana o come si diceva all’epoca “punk”. Non esisteva una forzata ricerca del pezzo matto. Poi non tutti nell’Ok facevano pezzi per forza stranissimi. Ad esempio, che mi ricordi, Punto non cercava mai di fare cose matte, ma belle e ben equilibrate. Cook come me faceva sia pezzi classici che più sperimentali. Non tutti i membri del Gruppo Ok sono di provincia, perché ci sono anche dei membri dell’NBW di Milano. Però il fatto che molti di noi lo fossero ha influito tanto. In quegli anni la globalizzazione, anche nei graffiti, era meno accentuata. Inizialmente facevo riferimento alla scena delle grandi città, ma io non ne facevo parte e non la potevo vivere. Forse per quello non mi sono mai riconosciuto molto nel mondo dei graffiti tradizionale. Come altri provinciali ho cercato di interpretare a mio modo le regole del gioco. Le interviste di alcuni writer dell’epoca non mi interessavano più e le trovavo spesso spocchiose, piene di dogmi inventati per autocelebrarsi. Volevo dipingere allontanandomi dalla mentalità di alcuni di loro e cercare una mia strada, sapendo magari che non sarebbe stata meglio, ma forse più originale. Quando ho incontrato gli altri ragazzi ci ha accomunato anche questa attitudine. Dipingere per divertirsi senza prendersi troppo sul serio, facendo le cose senza preoccuparci troppo del giudizio degli altri. Poi avevamo anche altri interessi spesso poco congruenti fra loro, che ci hanno influenzato. Questa mancanza di filo conduttore credo che si vedesse molto. Per quanto riguarda le ispirazioni nell’ambito dei Graffiti, ho sempre fatto molto più riferimento agli stili Europei. Forse perché il primo libro che ho avuto è stato “Spray can art”, che contiene molta roba Europea. Le prime cose dal vivo le ho viste in viaggio con i miei sul lungo linea ferroviario a Parigi e quando sono andato a casa di mia zia e dei miei cugini a Monaco di Baviera. A 14 anni sono andato a fare le superiori a Piacenza. Quella è stata la mia New York solo che i primi pannelli che vedevo erano quelli di Rok ed Eron. Anche loro con uno stile super Europeo.

Punto: Facevamo tutti parte del mondo dei graffiti e condividevamo l’idea che fare i graffiti è bello perché si sta insieme e si disegna con le bombolette colorate. Difficile trovare dei riferimenti culturali comuni che non fossero appunto i graffiti e il piacere di disegnare lettere con i colori. Se devo rispondere in chiave ‘stilistica’, all’epoca non ero particolarmente interessato alle cose pazze che facevano in nord Europa, mentre quasi tutti gli altri sì. All’interno del gruppo c’erano approcci stilistici non sempre condivisi, ma l’importante era la condivisione di una certa idea di divertimento e amicizia che rendeva lo stare insieme bellissimo. Non facevamo riferimento a nessuna cultura per quello.

Spot: Può sembrare buffo, ma io con la cultura hip hop non ci ho mai azzeccato nulla. Per me la storia dei graffiti era una roba tutta nuova, e come tutte le robe nuove io ci strippavo. Conoscevo la cultura hip hop, sapevo benissimo cosa erano e perché esistevano i “murales”, non fraintendermi. E’ che a me è sempre sembrata una roba buffa. Io venivo dal punk e dal degrado musicale estremo (grindcore, noise, doom). Le musichette fatte parlandoci sopra di macchine rimbalzanti o di guerre tra gangster di provincia mi hanno sempre incuriosito, ma non le ho mai prese in seria considerazione. Però mi piaceva disegnare. E il poter portare le mie storie e stravolgere anche questo mondo, che segue comunque degli schemi ben precisi (è inutile negarlo), mi ha affascinato sin da subito. Ok, faccio i graffiti. Mark Beyer, Bruno Bozzeto, Altan, Derek Riggs, Go Nagai, Corrado Roi, Buron Son & Hara, Lovecraft, i Dead Can Dance, Richard Scarry, sicuramente hanno influenzato da sempre il mio modo di esprimermi, o hanno comunque avuto un impatto decisamente importante. Ma ho sempre avuto il cruccio di metterci del mio. E’ un vizio che mi accorgo di avere in tutto. Questo mi porta a produrre indipendentemente dalla qualità del risultato. Una sorta di continua ricerca del capirsi. Non saprei che altri modi usare.

Alfano: Nel periodo in cui sono stato accolto nel gruppo i miei riferimenti culturali erano piuttosto vaghi, anche se già si stava definendo la propensione ad una ricerca intimista, provocatoria, non accademica, molto legata alla spontaneità del gesto, antiestetica e in certi casi terapeutica. Nello specifico in quel periodo sono stato appassionato di art brut, di buona parte dell’arte considerata non istituzionale/convenzionale, ai graffiti old school, ai cartoni animati degli anni ’80, ai videogiochi e ai graffiti di quelli che in gergo writing vengono definiti “toy”. Tutti questi riferimenti o input si sono concretizzati in quella che è ancora in parte la mia ricerca artistica, quindi in un approccio spontaneo ed impulsivo alla creazione, ma anche ossessivo, che ha occupato ed occupa buona parte della mia esistenza. L’interesse per l’art-brut, l’attitudine ossessiva e la ricerca della spontaneità del gesto, mi hanno portato con naturalezza ad approcciarmi al contesto del disagio psico-fisico e sociale, ambito nel quale ho portato come strumento relazionale la mia esperienza nel campo dell’arte contemporanea, ideando e conducendo workshop artistico- esperienziali e come formatore per quelle figure professionali che orbitano intorno all’ambito socio- educativo che hanno interessi che esulano dagli strumenti educativi più classici. Svolgo questa attività ufficialmente dal 2014.

Aris: I riferimenti culturali sono cambiati nel tempo. Ho iniziato ad appassionarmi ai graffiti quando avevo circa 15 anni, venendo da una città di provincia nella mia zona in quel periodo non c’era ancora nessuno che dipingeva. Le prime cose le vidi durante un viaggio a Berlino e ne rimasi molto colpito. Trovavo necessario che, anche dove vivevo, si sviluppasse una scena, così ho iniziato a fare le prime scritte. Disegnare o dipingere non mi era mai interessato molto prima di allora, non mi sentivo particolarmente portato, per questo mi concentravo sulle tag a marker, riempivo quaderni interi per studiare la concatenazione delle lettere tra loro e non avendo magazine o siti da cui imparare, facevo dei viaggi nelle città vicine a ricercare tag di altri da cui prendere spunto. Qualsiasi scritta sui muri era una fonte di ispirazione, non solo le poche tag, ma anche stencil di gruppi punk o metal, frasi o loghi. Di quegli anni mi ricordo in particolare un pezzo molto potente di Boogie, che in quel periodo aveva fatto una trasferta insieme a Zagor dalle mie parti. Alcune foto di pezzi o scritte le avevo trovate nelle riviste di skate, poi negli anni successivi, quando ho cominciato ad avere per le mani le prime fanzine e i primi magazine, Tribe o Aelle, ho cominciato a guardare soprattutto alla scena di graffiti writing milanese, le cose più sperimentali come quelle di Lemon, Drop C, Rax-e. Tutto era un po’ filtrato dalla distanza, dipingere treni era il modo per mostrare il lavoro entrando in contatto con città più grandi senza spostarsi fisicamente. Non solo la pittura e la scena ci hanno coltivato, ma anche la passione per le feste e i balli matti, le esplorazioni inusuali e sicuramente una spiccata tendenza alla gentilezza. Negli anni ci siamo sfiorati spesso, con le nostre partecipazioni a riti collettivi divenuti poi punti cardinali come Panico Totale, come i concerti e i festival, le città, la Livorno-Torino e alla fine l’incontro a Icone, qui il tempo e lo spazio sono stati finalmente condivisi.

Fine prima parte (1/3)

Alessandra Ioalè
Storica dell’arte, ricercatrice e curatrice indipendente. I suoi interessi spaziano dalle arti elettroniche e digitali all’arte grafica, dall’illustrazione al fumetto italiano e allo studio del graffiti-writing e in generale dell’arte urbana. È autrice del libro “Panico Totale. Pisa Convention 1996-2000”, ricostruzione storica della manifestazione toscana che contribuì allo sviluppo del graffiti-writing italiano degli anni ‘90. Scrive articoli per diverse testate online e cartacee e saggi critici per diverse pubblicazioni. È curatrice di diverse mostre e attività culturali per diverse gallerie e spazi espositivi italiani. Vive a Pisa e lavora in tutta Italia.
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