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Poverissima

Poverissima 711 400 MoaiPress

Poverissima, evento open house fuori programma nell’art-week torinese.

Poverissima è stata un’azione collettiva, un evento gratuito, uno spazio privato che diventa pubblico, una fotocopiatrice, molti fogli recuperati, persone sconosciute, artistǝ, disegnatorǝ, poetǝ, fotografǝ, vandalǝ, una stanza al primo piano, il 3 novembre a Torino in via Milano 13.

Che cosa è stata Poverissima? Da che cosa è nata? Che cosa è successo dalle ore 15:00 alle ore 23:00?
Per chi non fosse riuscitǝ a passare, sono state nove ore rumorose, affollate e partecipate. Più di 50 invitatǝ in line up e lǝ circa 1500 presentǝ hanno contribuito attivamente ad arricchire l’installazione producendo e fotocopiando in loco le opere originali: lasciandole così a disposizione di chiunque volesse prenderle. Non solo creativǝ che agiscono con i media visuali, Poverissima ha ospitato anche un’installazione sonora, poetǝ, scrittorǝ e performer.

Entrando al secondo piano della casa in via Milano, ex atelier di Michelangelo Pistoletto e oggi residenza privata, ad accogliere i visitatorǝ un’atmosfera modesta: mobili accatastati, un angolo bar improvvisato e un sorriso cordiale al banco autoproduzioni al quale lǝ creativǝ interessatǝ hanno potuto lasciare le loro opere in vendita durante l’evento. Entratǝ nel salone principale che ospitava le due installazioni, ci si trovava davanti a una distesa di fogli illuminati dall’alto e persone in terra: risme di carta sulle quali riposavano le opere dellǝ artistǝ invitatǝ e si mescolavano agli interventi dellǝ astantǝ che con pennarelli, matite e fogli puliti hanno lasciato il loro segno fotocopiando gli originali e depositandoli su una delle pile disponibili o creandone una apposita. In fondo alla sala invece Marco Isaias Bertoglio e Ginevra Naldini hanno prodotto e performato un’installazione creata dal campionamento di suoni del quotidiano mixandoli con rumori e voci campionati tra i presenti.
Il concept era molto semplice: opere accessibili e fruibili per tuttǝ​: come unico limite il buon senso di lasciare la possibilità di goderne anche a chi arrivatǝ successivamente. Una fotocopiatrice in costante funzione ha instancabilmente ri-fotocopiato le opere esaurite e i nuovi interventi prodotti. Solo verso le nove di sera, all’esaurimento del toner, l’installazione ha cominciato a smagrirsi fino all’esaurimento di tutti i fogli.

Poverissima è stata animata dalla volontà di creare qualcosa di semplice, che navigasse al di fuori delle rotte commerciali e ormai stantie della settimana dell’arte Torinese in cui tutto si gioca sull’immagine e sulla commercializzazione del prodotto artistico. Non un atto di protesta, ma piuttosto il tentativo di creare un clima capace di promuovere forme di socialità differente, fondate sul reciproco scambio e confronto, al di fuori della dinamica economica e senza la necessità di consumare per esserci. Per questo tutto è stato all’insegna del risparmio o, possiamo dire, Povero: vino gratis, arte gratis, socialità gratis.
Poverissima è stato il primo evento pubblico di MoaiPress che proprio il 3 Novembre, per concomitanza casuale di eventi, nasce formalmente come Associazione di Promozione culturale con il nome di Moai A.p.s.
Proprio questo evento, nella sua semplicità, rappresenta in qualche modo la direzione che vorremmo prendere con l’associazione e con i nostri progetti: percorsi, idee e azioni accessibili, permeati nel contesto e svincolati dalla sola necessità economica. Ciò, ovviamente, non significa il non utilizzare denaro ma tentare di farlo sempre in maniera etica e consapevole, svincolandosi dal profitto fine a se stesso per concentrarsi sui risultati e sui percorsi.
Poverissima, a parere di chi l’ha vissuta, è stata anche tutto questo.

Dopo l’evento è stata raccolta una selezione di alcuni lavori dellǝ artistǝ che hanno partecipato ed è stata realizzata una pubblicazione digitale liberamente fruibile e scaricabile.

Tutte le informazioni contenute nella presente pubblicazione editoriale sono di carattere confidenziale, con divieto di diffusione e di uso salvo espressa autorizzazione.

MoaiPress è contenitore e divulgatore di informazioni ed approfondimenti sull’universo dell’arte nello spazio pubblico in Italia. Una piattaforma online dedicata alla raccolta di ricerche, approfondimenti e testi critici di esperti, artisti e professionisti che negli anni hanno dimostrato una particolare sensibilità per le tematiche che interessano il settore dell’arte urbana.

Decorare tutto

Decorare tutto 1080 706 Andrea Gianfanti

È il momento di fermarsi qualche istante a ragionare.
Più di due anni fa, chiusi in casa per le misure di contenimento dei contagi, in tante e tanti riflettevamo su come sarebbe stato il mondo post-pandemia: quali trasformazioni questa sospensione forzata avrebbe provocato e come, di conseguenza, avremmo rivalutato le categorie del nostro operare a tutti i livelli, incluso quello artistico.
Ricordo di aver sommessamente sperato, tra le altre cose, che un evento così segnante potesse spingere anche chi dipinge e chi opera nell’arte urbana a rimettere in discussione con rinnovata sensibilità pratiche immutate, arroccate su un linguaggio ormai sfibrato, fiacco e a sua volta frammentato in un’infinità di cocci, riuniti pigramente sotto lo standard operativo – largamente richiesto e tristemente accettato – della pittura puramente decorativa.

MoaiPress©2022

L’emergenza non è ancora finita, anzi si è allargata visti i recenti avvenimenti geopolitici, eppure per chi opera nel settore delle arti urbane la macchina si è rimessa in moto: progetti vecchi e nuovi ripartono e molti muri vengono dipinti. Ma è cambiato qualcosa?
A ben guardare non è cambiato proprio nulla. Ancora molti interventi fatti in strada ricalcano la sola cifra del bello, o “catchy”: qualche foto di attualità – veloce e didascalica – una maschera Photoshop , ctrl+C / ctrl+V, ed il gioco è fatto. Ancora sentiamo parlare di interventi piuttosto che di processi. Ancora vediamo contest e bandi finanziati da soldi pubblici o privati che vogliono artisti da pagare poco per manipolazioni del tessuto urbano redditizie, in termini di decoro, e sbrigative, in termini di tempo e contenuti, in sostanza – per riformulare un noto adagio – “muri belli per popoli muti”, decorati ma pur sempre muti.

Da qui il titolo di questo articolo, una citazione storpiata dell’opera di Cuoghi Corsello 1. Una frase che esprime la necessità di una riflessione critica, un ponte tra quello che c’era e quel che c’è: un approfondimento sulla trasformazione dei contenuti e dei modi di produzione al fine di analizzare i risultati e lo stato dell’arte all’interno delle pratiche di espressione artistica nello spazio pubblico.

Nell’arco di una decade, da quando abbiamo iniziato a vedere i primi Whole Buildings 2 e la nascita di diversi festival in tutta Italia, la scena è cambiata. Ad affiancarsi agli artisti della prima generazione – per la maggior parte tutti provenienti dal graffiti-writing ed appartenenti ad una comunità piuttosto ristretta 3 – si sono presentate nuove figure e diversi fattori che hanno concorso a modificare metodi e pratiche del movimento.
L’avvento, in maniera massiccia, dei social media – Instagram in particolare – è sicuramente un fattore di rilievo nel cambiamento di attitudine, ma ancora di più risulta esserlo il riconoscimento di un valore, culturale, economico e dunque istituzionalizzato della Street Art. In un lasso di tempo piuttosto breve si passa da una pratica disinteressata ad un interesse diffuso verso la pratica, ma ancor di più verso l’oggetto arte urbana: sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori. Cresce il numero di festival soprattutto istituzionali, vengono inaugurati musei a cielo aperto e realizzate mostre in contesti ufficiali, diverse gallerie orientano il loro lavoro in direzione dell’arte urbana e soprattutto sempre più persone, provenienti dai più diversi background iniziano a dipingere/intervenire.

MoaiPress©2022

In poco tempo la pratica di un movimento piuttosto definito e chiuso si diffonde, su scala mondiale, in un corpus ampissimo di stili, tecniche, commistioni, e interessi tanto da compiere un giro semantico completo rispetto al punto di partenza: se ai suoi albori la Street Art può essere definibile proprio in relazione alle sue caratteristiche di “denuncia politica, economica e sociale, cosi come [dalla] volontà di sovvertire i codici della comunicazione mass-mediologica [attraverso] una guerriglia urbana pronta a risvegliare le masse dal torpore della narcolessia comunicativa e tecnologica” 4 oggi le maglie del movimento – in termini di pratiche e di partecipanti – sono così larghe da renderne impossibile il riconoscimento entro le stesse categorie. Forse – ipotizziamo – la Street Art come la conoscevamo non esiste più e ciò che un tempo si posizionava fuori dal sistema – per analizzarlo, criticarlo, distruggerlo o sovvertirlo – oggi rientra, a gamba tesa, dentro al sistema: pubblicità, rigenerazione urbana o decorazione sono soltanto alcune delle categorie che andrebbero approfondite per chiarire come l’arte urbana sia oggi – molto spesso – soltanto uno strumento ad uso e consumo da parte di enti, aziende e istituzioni e quindi uno strumento di potere.
In risposta e in controtendenza a questa grande trasformazione c’è stato da parte di alcuni artist* e curator* un forte avvicinamento alle pratiche dell’arte partecipata e quindi una rimessa in discussione delle loro posizioni e del loro lavoro all’interno degli spazi pubblici: situazioni e contesti in cui l’arte e le sue pratiche sono state poste ad un livello comune di condivisione per la realizzazione di processi – e non di interventi – realmente trasformativi e utili ai luoghi ed alle persone. Anche qui è necessario scendere sotto la superficie dei progetti per comprenderne davvero l’essenza, gli scopi e le relazioni di potere evitando così di farsi ingannare dalla bella apparenza.

MoaiPress©2022

Proprio la consistente trasformazione a cui abbiamo assistito rende necessario un ragionamento preliminare utile a valutare tutto ciò che viene prodotto nello spazio pubblico attraverso l’arte e per ottenere un orizzonte di riferimento chiaro su cui poggiare lo sguardo.

Com’è possibile quindi capire e analizzare un’opera o un progetto di arte urbana? Di fronte ad un muro o a un’istallazione cosa dovremmo fare per dare un giudizio consapevole e concreto? Cosa fa la differenza tra un intervento speculativo – non per forza in termini economici – ed un intervento di “arte sociale”5 ?

Non esistono ovviamente risposte univoche, valide per ogni opera, progetto o contesto ma esiste la possibilità di stilare una lista di domande – in costante e necessario aggiornamento – sempre utili a comprendere e definire i progetti di arte pubblica, nonché a chiamare le cose con il proprio nome.
Partiamo da un classico metodo che, attraverso cinque semplici domande, consente di esplorarne le relazioni di causa-effetto.

Chi? Chi ha realizzato il progetto? Chi sono i curator*/organizzator*? Chi sono l* artist* e qual è il loro percorso? Il “chi?” è una domanda fondamentale che permettere di riconoscere gli attori e le attrici sociali che hanno partecipato alla realizzazione e al posizionamento dell’opera o del progetto nel relativo contesto. Molto spesso si tratta di associazioni di promozione culturale ma è importante scavare più a fondo per conoscere le storie, gli interessi e le motivazioni fondamentali che hanno portato alla con-partecipazione al progetto.

Che cosa? Cosa è rappresentato? Che cosa è stato fatto? Murales, contest, bando pubblico, installazione, graffito, opera di urbanismo tattico o processo condiviso di arte partecipata? I risultati visibili nello spazio urbano sono solamente la punta di un iceberg che ha alla sua base le reali motivazioni e intenzioni della sua esistenza. Ciò che determina il valore di un’opera non è soltanto il suo valore estetico: visto il sistema entro il quale si posiziona e considerata la vocazione originaria di questo tipo di espressione artistica, è necessario sorpassare la materialità dell’opera per leggere tra le righe della sua realizzazione.

Quando? Quando è stata realizzata l’opera? Il tempo è caratteristica imprescindibile da tenere in conto. La stessa opera realizzata in momenti differenti potrebbe avere significati e valori totalmente diversi. Per fare un esempio pratico potremmo tenere in considerazione la concomitanza di piani strategici politici o di elezioni durante la realizzazione di opere: questa caratteristica è un importante campanello di allarme per la valutazione di progetti che potrebbero essere molto più sbilanciati a favore di finalità propagandistiche anziché sociali, culturali o artistiche.

Dove? “Lo spazio pubblico, per definizione, è di chiunque, operare in strada è quindi anzitutto una responsabilità verso coloro che tutti i giorni abitano o attraversano determinati luoghi”6 . Ogni opera, nessuna esclusa, si inserisce in un contesto ed è fondamentale valutare come questo inserimento abbia avuto luogo: che sia dall’alto, dal basso o in maniera orizzontale, è importante capire come ciò che sta intorno all’opera ha contribuito alla sua creazione e quale sia stato il grado di attenzione che i protagonisti hanno avuto rispetto al contesto.

Perché? Cosa ha spinto gli attori in causa a produrre il progetto? Quali sono le finalità? Quali sono i risultati? Ad ogni azione corrisponde una conseguenza, in modo particolare se queste azioni si sviluppano in uno spazio nel quale una comunità si riconosce, in un luogo quindi. Operare attraverso l’arte nello spazio pubblico non può essere giustificato dalla sola pretesa di abbellire la città o, ancor peggio, di contrapporre gli interventi decorativi a quelli vandalici per sconfiggere il degrado e risolvere attraverso azioni, sempre superficiali e redditizie, questioni complesse di disagio sociale. Realizzare un opera, in uno spazio pubblico, porta con se una fondamentale questione di potere e occupare uno spazio collettivo con un messaggio è altresì una questione politica.

Visto e considerato il mondo in cui viviamo, le emergenze, le necessità che lo caratterizzano e le sfide che il futuro prossimo ci pone di fronte è necessario pretendere chiarezza in ciò che viene fatto nei luoghi, non accontentandosi di narrazioni semplicistiche ma pretendendo percorsi e significati reali e consistenti.

Andrea Gianfanti
Antropologia e Comunicazione visiva per guardare. Pittura, fotografia, curatela e organizzazione per fare.

NO

NO 1080 716 André Guerrilla SPAM

Inizio a scrivere dicendo “NO”. In realtà è un inizio propositivo, che nel suo negare qualcosa intende promuovere altro. Consapevole della parzialità del mio parere, voglio fare un elenco di cose che, nell’ambito del dipingere in strada, non tollero più.

L’elenco si riferisce in particolare al mestiere del muralista, cioè di colui che, con una commissione pubblica o privata, dipinge un muro di una città. La mia invettiva non nasce oggi e di certo non si concluderà domani; sono rassegnato al fatto di dover ancora, ancora e ancora, ripetere questa lista di “NO”, occasione dopo occasione, ribadendo a infinite persone in infiniti contesti questi stessi motivi. Non importa, va bene così, continuerò a farlo con l’auspicio che tanti altri, amici e colleghi, si uniranno a me nel dire “NO”. Cominciamo.

1. Un artista non deve essere pagato in “visibilità”.
Non occorre particolare acume per comprendere che la strada, in quanto spazio pubblico, garantisce di per sé visibilità. Promettere visibilità a un muralista è come offrire mele a un fruttivendolo. Quindi, se vi offrono una sorprendente visibilità, invece che pagarvi, dovete dire “NO”.

2. Un artista non deve essere pagato meno di un imbianchino.
Non che il lavoro del pittore valga di più, ogni mestiere ha la sua dignità; tuttavia il muralista, oltre al fondo, dipinge “altro” sopra. Sarebbe come andare in pizzeria e pagare una pizza farcita meno di una margherita. Ma incredibilmente, spesso, questo accade: i muralisti sono pagati meno degli imbianchini perché, si sa, loro lo fanno per passione (!). Capita così di dipingere facciate pagati 3 o 4 euro al metro quadro, quando un imbianchino ne prenderebbe minimo 10. Se quindi vi propongono un tale contratto ricordate ai vostri committenti quanto gli costerebbe un imbianchino e poi ditegli “NO”.

3. Un artista non deve essere scelto in base al preventivo di un lavoro.
State scegliendo un impresa di pulizie? No! Il lavoro artistico certamente non si valuta con un preventivo economico al ribasso, a chi offre di meno. Dovrebbe questo essere l’ultimo dei criteri di valutazione, perché il lavoro intellettuale e materiale di un artista si calcola secondo parametri ben più complessi. Se vi chiedono un preventivo specificando che vincerà il più basso, rispondete “NO”.

4. Un artista non deve essere obbligato a presentare il bozzetto (perlomeno, non deve essere questo un criterio essenziale per essere scelto).
Il bozzetto può aiutare a capire le possibilità di quel che si dovrà realizzare, tuttavia sarebbe professionale scegliere un artista in base al corpus dei suoi lavori precedenti, al suo stile, al suo modo di relazionarsi in un contesto e alla sua progettualità. Quello tra artista e committente è un rapporto delicato di fiducia che, presentando un bozzetto, viene stroncato in partenza (va aggiunto che spesso molti committenti non sanno comprendere i bozzetti degli artisti, quindi tale mossa si rivela persino inutile). Se vi chiedono obbligatoriamente un bozzetto prima di affidarvi un lavoro rispondete “NO, guardatevi il mio portfolio”.

5. Un artista non deve essere scelto da una giuria popolare.
Lo so che piace tanto fare questi contest online in cui vince chi prende più voti, oppure quelle sfide tra artisti in cui gli abitanti del quartiere votano il migliore. Queste gare, che siano cyber o paesane, sviliscono la professionalità dell’artista e quella di tutti coloro che studiano o fanno ricerca in tale ambito.
Un esempio facile: quando viene l’idraulico a casa vostra vi mettete a disquisire su quali tubi e guarnizioni debba usare? Non credo, al massimo gli offrite un caffè e aspettate che finisca. Questo perché si presume conosca il mestiere meglio di voi, che di tubi e guarnizioni non sapete niente. È il meccanismo di fiducia nella professionalità altrui, accompagnato dalla consapevolezza della propria incompetenza in un certo ambito. Ecco, questo accade ovunque, meno che in ambito artistico. Di arte tutti parlano, giudicano e disquisiscono, perché, si sa, il “gusto è soggettivo”. Ottimo. Questo finché decidete il colore del vostro divano, ma non se si realizza un’opera pubblica. Per tali cose esistono professionisti che, dopo aver studiato anni, dovrebbero essere in grado di compiere scelte complesse, meglio di una giuria popolare alla Sanremo.
Per questo, le giurie popolari umiliano il mestiere dell’artista. Occorre dare fiducia a chi “sa”, affidarsi ad un esperto d’arte come ci si affida all’idraulico.
Riconoscere la professionalità altrui è il primo passo per migliorare la condizione di artisti, studiosi o ricercatori d’arte di ogni genere. È il primo passo per non indire una giuria popolare, per non farne parte e per non essere giudicati da essa. Se vi comunicheranno quindi che il vostro lavoro è valutato da una giuria popolare, social o in carne e ossa che sia, ditegli pure “NO”. E questa volta arrabbiatevi.

André Guerrilla SPAM
Membro del progetto Guerrilla Spam dal 2010. Oggi lavora nello spazio pubblico, in Italia e all'estero, con affissioni, muralismo, installazioni e performance. Tiene lezioni e workshop in scuole, accademie, comunità minorili, centri di accoglienza e carceri. Ha esposto in musei archeologici e musei d'arte moderna e contemporanea nazionali.

Uno sguardo “disinteressato”

Uno sguardo “disinteressato” 1080 810 Ufocinque e 108

Uno sguardo “disinteressato” 1

Fino agli anni Settanta/Ottanta i graffiti in Europa non esistevano. C’erano i “graffiti politici”, di propaganda, o tutto al più le scritte poetiche. Si trattava comunque di espressioni rivolte alla collettività con un fine sociale o, nel caso della poesia, uno scopo culturale.
I “graffiti” che invece intendiamo oggi, quelli cioè che vengono da New York e con i quali noi siamo cresciuti, sono una realtà totalmente differente, una manifestazione di una società fondamentalmente individualista, che tuttavia ci ha dato un’opportunità di espressione e, in un qualche modo, di “sopravvivenza”.

È interessante pensare come tale fenomeno sia nato sul finire degli anni Sessanta proprio negli States, il paese più individualista e capitalista al mondo, in cui tutto può essere sacrificato in nome della scalata sociale e del profitto. In Europa quest’idea della società è arrivata dopo, con l’adozione definitiva del modello americano e con l’avvento, poi, anche dei graffiti.

Definire la natura del writing risulta ancora oggi difficile. L’atto di scrivere il proprio nome in modo non autorizzato in uno spazio altrui, sia che si tratti di un bene pubblico o privato, può essere visto come un gesto anarchico, ma, al tempo stesso, tale imposizione, che non prescinde da nessun dialogo, ha insito anche “un qualcosa” di autoritario o violento ed egoistico. L’argomento è delicato e risulterebbe fin troppo superficiale se si sentenziasse che i graffiti sono qualcosa di giusto o sbagliato.

Piuttosto è interessante comprendere tale fenomeno in relazione ad un dato momento storico, considerandolo il sintomo di un certo cambiamento sociale.

Inoltre fare graffiti, almeno per noi, è stata una grande “via di fuga”. Portare in giro il proprio nome era sì un’affermazione sociale, ma anche un modo per uscire, metaforicamente e concretamente, da zone disagiate con mentalità provinciali, in cui la normalità era prendersi a botte allo stadio o sfondarsi di droga e per assurdo la cosa più sana sembrava andare di notte a fare i pezzi in yard.

Gli anni Novanta hanno rappresentato un periodo denso di sperimentazioni e soprattutto di genuina inconsapevolezza. Eravamo in pochissimi a fare graffiti nella provincia piemontese e ciò significava che anche se copiavi quello che veniva dall’America o dalla Svizzera eri comunque parte di una minoranza incredibile che, in qualche modo, poteva essere considerata una forma di avanguardia. Conoscevi a memoria tutte le tag presenti nella tua città, e quando ne trovavi una nuova era subito caccia al writer domandandoti chi fosse. E quando non dipingevi, passavi i pomeriggi in stazione a fotografare i treni dipinti dagli altri, pur di avere un sorta di archivio di lettere, stili e pezzi differenti da poter studiare e rielaborare. Eravamo tutta gente interessata a qualcosa di creativo, anche se privi di chiari intenti artistici. Non c’erano pretese di guadagno, di fare carriera o di portare avanti un percorso in funzione di qualche tendenza o addirittura del mercato. Era ben chiaro a tutti che i soldi non si sarebbero mai visti, al massimo delle multe.
La differenze fondamentale tra quei primi anni e l’ecosistema odierno chiamato “street art”, sta nella maturata consapevolezza di sé, del proprio gesto. Consapevolezza che aggiunge un valore, artistico ed economico, e che quindi dimentica l’esigenza disinteressata per diventare una prassi, invece, “interessata”.

Come tutti i movimenti e tutti gli “ismi” dell’arte, la definizione “street art” è arrivata molto dopo. “Cose strane” era come noi chiamavamo i primi poster, stencil e stickers, o i primi loghi che iniziavano a rompere il rumore di fondo ormai uniforme, e quindi innocuo, delle tag. Ekosystem li definiva “non hip hop graffiti” in quanto sembrava provenissero da una matrice differente, forse più vicina al punk. Tra le primissime “cose strane” vengono in mente i “sassi” di Pira, il “piede” di Suede, i “balconi” di Santy, i font in stampatello di Dumbo (leggibilissimo e volutamente non ermetico) o i poster di Abbominevole, nella Milano di fine anni Novanta, anticipati di qualche anno dai pionieristici loghi di Stak già presenti nelle metro romane nel ’95. Disegni che adesso possono sembrare consueti, ma che in quegli anni rappresentavano qualcosa di sconvolgente.

In quel periodo nascono anche esperienze come l’OK Crew (108, Pira, Peio, Dem, Mr. Mondo, Blitz, Cook, Punto, Mine), in totale controtendenza rispetto ai vari manierismi di stile e all’atteggiamento gretto del graffitaro-gangster sempre più diffuso. Sono questi casi spontanei di sdoganamento del fenomeno, nati senza un’intenzione precisa ma solo come sperimentazione, che hanno portato alla futura pluralità di linguaggi sviluppati al di là delle ferree regole del writing.

Stimolati dal nascente nuovo utilizzo dei media la scena si ampliò velocemente. Se per la diffusione del writing furono fondamentali le fanzine, le riviste di skate, o magazine come Aelle, che offriva una bella panoramica e nessuna selezione, per la nascente street art fu decisivo l’uso di Internet.

I primi siti in Html ci permisero di mostrare quello che facevamo anche a gente che viveva in altri paesi. Ci si spedivano per mail le foto dei pezzi nonostante ci volessero alle volte cinque minuti per scaricare un’immagin e piccolissima, considerando che la connessione 56 KB/s andava sempre, al massimo, a 14KB/s. Si potevano vedere dei pezzi fatti in Scandinavia o in Francia dal proprio pc, in sostanza quello che prima si faceva andando fisicamente in stazione adesso si poteva fare virtualmente dal computer. Indipendentemente dai pro e i contro, si trattò di una rivoluzione.

Poi arrivò Fotolog che completò il cambiamento. Si poteva caricare una sola foto al giorno ma si aveva l’opportunità di vedere tutto ciò che veniva fatto di nuovo nel mondo, o meglio in Europa, considerando che in quegli anni, guardavamo molto più agli europei che agli americani. In breve tempo quelle poche decine di persone che disegnavano diventarono centinaia. Gli iniziali eventi più spontanei come “Where is 101?”, “Happening Underground” o “Illegal poster art” organizzati spesso fra amici vennero affiancati da festival più strutturati e ufficiali.

Osservando oggi con sguardo distaccato quel periodo viene da pensare come tutta questa storia della street art sia andata in una direzione poco interessante, o perlomeno verso direzioni più commerciali rispetto alla sperimentazione iniziale. Oggi trovi uno stile che funziona e vai avanti ad oltranza, oppure, al contrario, all’interno di ciò che fai, limi gli angoli, raffini la tecnica.

Quest’idea di avere un oggetto e perfezionarlo all’infinito è però più un aspetto legato al design industriale, non alla sperimentazione creativa. Paradossalmente, in una sottocultura tendente a ghettizzarsi come quella dei graffiti, in cui l’ego aveva un’importanza primaria (ma anche il concetto di crew, molto importante) la voglia di sperimentare era invece decisiva. Passavamo dai graffiti razionali con le lettere più New York o tedesche possibili a stili inventati sul momento come il “nautilus” o lo stile “marmitte”, cose che non piacevano neanche ai tuoi amici, ma erano divertenti; era tutto uno scherzo che poi però produceva risultati (non pretesi) sorprendenti. Oggi, anche nelle nuove leve, c’è molta più professionalità, ci si approccia subito in modo quasi lavorativo.

Ma i dibattiti quotidiani non trattano questi temi. Si parla tanto di riqualificazione, come se fare un “pupazzo” di quindici piani su un palazzo volesse dire riqualificare un quartiere. Si infuocano (ancora) polemiche sull’arte di strada in galleria, usando metafore come “rinchiudere la tigre in gabbia”, invece di comprende che ogni luogo ha un suo linguaggio e semplicemente si può fare arte, in modi e spazi diversi, dai treni al museo, dalla strada alla galleria.
Verrebbe da dire che c’è bisogno di più interesse e cultura, ma probabilmente non è neanche così. I matti e tutto il filone dell’Art Brut possono essere considerati tra i più geniali artisti, eppure generalmente non hanno una formazione culturale e si esprimono solo per l’esigenza di farlo.
Questa è arte totale, disinteressata, come poteva essere il primo periodo dei graffiti. Forse c’è bisogno di tornare a questo, abbandonare le logiche razionali del mercato e l’inseguimento della carriera artistica, sperimentare, divertirsi, non essere pretenziosi, avere, cioè, uno “sguardo disinteressato”.

Ufocinque e 108

Ufocinque
Matteo Capobianco (aka Ufocinque) nasce a Novara nel 1981. Originariamente attivo nella scena graffiti e street-art italiana, in seguito sperimenta una definizione più completa di arte parallelamente agli studi di Design al Politecnico di Milano. Dopo aver lavorato come set designer per vari teatri italiani, inizia a creare installazioni artistiche, mixando il metodo del design alla scenografia classica, usando la carta ritagliata a mano come materiale peculiare. Prosegue così la sua ricerca artistica alternando la pratica del disegno al muralismo, le sculture in ceramica alle installazioni in carta o altri materiali.

108
Guido Bisagni (aka 108) nasce a Alessandria nel 1978. Storico esponente della scena italiana dell’arte urbana, laureato in disegno Industriale presso il Politecnico di Milano, è considerato uno dei primi e maggiori esponenti del post-graffitismo astratto a livello nazionale ed europeo.
Si avvicina al mondo dei graffiti all’età di tredici anni, accedendovi dalla cultura punk-rock e dalla pratia dello skateboard piuttosto che dal più comune indirizzo hip-hop. I suoi interventi si avvicinano inizialmente allo stile americano più tradizionale, con sperimentazioni sulla via del tridimensionale proposto dalla scena svizzera e tedesca, per poi conoscere gli stili nordici più avanguardistici. Nel 1999 abbandona il lettering tradizionale per dedicarsi a formule espressive più distintive e caratterizzanti, come sottolinea anche il passaggio allo pseudonimo 108, nome de- personalizzante derivato da una combinazione di interessi nelle filosofie orientali e nella geometria. Oggi prosegue la sua ricerca con contaminazioni che vanno dall’astrattismo delle avanguardie storiche alla causalità dadaista di Arp, dalla numerologia alla pittura primitiva, sino alla componente sciamanica delle religioni orientali e la teoria dei colori di Kandinskij.

From street to art

From street to art 1080 765 Simone Pallotta

Questo testo critico/emozionale si trova in una piccola pubblicazione edita nel 2014.1
La fanzine è una selezione di foto anni ’90 di situazioni legate ai graffiti, dove i graffiti si intravedono nello sfondo, non sono il soggetto principale; giovani writers in posa alle fermate dei bus, tag in posti assurdi, cazzate, superfici, emozioni e texture, libertà totale, gli anni novanta vissuti con un entusiasmo primario e incoscente.
Ho usato quelle immagini come contrappunto al testo che parla di un’attitudine che si trasforma in energia pura per poi diventare lavoro e solo nei migliori casi Arte.
Volevo parlare di come il writing fosse in qualche modo un atto puro, incontaminato, e di come l’arte urbana abbia trasformato questa trasparenza in ricerca artistica, molte volte strategica, non sempre onesta.
La mostra del 2014, per quanto piccola, era nel centro di New York, all’Istituto di Cultura Italiano, è stata la prima e unica collettiva internazionale di artisti italiani che nascono tutti in quell’humus per poi prendere difformi direzioni espressive.

C’è stato un tempo in cui l’arte non era importante. Un periodo storico in cui spinti da un istinto che nulla aveva di ancestrale, adolescenti di luoghi diversi si trovarono connessi in un atto di affermazione dell’Io più profondo. Stavano affrontando inconsciamente la realtà dell’essere generazione non sedotta da ideologie, corrotta e irreparabilmente svuotata dall’inconsistenza e dal silenzio che queste avevano prodotto. Una generazione senza eco.

La chiave di lettura di un tempo senza senso si è però materializzata nella riconquista di un’identità autogenerata, di un modello creativo autonomo in grado di sensibilizzare quel vuoto, di renderlo consistente, vincendo la scommessa di costruire qualcosa di buono e potente dal nulla che c’era sotto i loro piedi, nessuna spalla di gigante a sostenere il loro sguardo verso il futuro.

C’è stato un tempo in cui i graffiti, produzione di lettere che formano un nome che riflette una individualità reale, hanno ricostruito l’identità perduta grazie ad un atto personale. In una sorta di rifondazione interiore si sceglieva un nuovo nome per riposizionarsi nella società in base ad un’autonoma invenzione di un Se autoprodotto; punto di partenza per una nuova ideologia che aiutava a rifondare l’interpretazione del mondo stesso attraverso il valore della propria singolarità. Un atto libero e puro che ha cambiato il destino dell’arte, senza saperlo e senza volerlo.

È dando forma alla nostra singolarità che si produce arte, senza sapere di produrla, senza calcolare come quello che stiamo realizzando cambierà i canoni visivi così profondamente da produrre una rivoluzione estetica. I graffiti sono stati l’anno zero di una volontà automatica produttrice di situazioni generative, occasioni di espressione primaria, di un ritorno alla creazione come necessità.

Arriviamo ad oggi, qui e ora. Dall’istinto espressivo primordiale dei graffiti, privi di necessità e volontà artistica ma ricchi di espressività interiore, siamo giunti ad una generazione che crede nei suoi mezzi perché ha voluto e ha saputo attraversare nuovamente tutti gli stadi del pensiero creativo. Siamo di fronte a uomini che hanno razionalizzato l’urgenza espressiva delle origini a favore di una propria visione dell’arte, fino a concretizzare la loro posizione che pretende di essere unica e profondamente autoriale. Siamo di fronte ad artisti che devono essere chiamati tali perché non c’è più bisogno del contesto di partenza per connotarli, non c’è più solamente la strada ad accoglierli ma il mondo intero.

Nessuno parli di street art ma di artisti che amano la strada, luogo di nuove e più profonde emozioni.

Simone Pallotta

Simone Pallotta
Curatore indipendente, dal 2006 lavora a progetti di arte pubblica integrata e progetti culturali crossover. Nato nel 1979 a Roma, cresciuto nel mondo del Writing e formatosi come storico dell’arte, decide di intrecciare la conoscenza dell’arte urbana alla preparazione umanistica ideando e realizzando progetti dove l’arte e la città siano due elementi di un più ampio scenario di confronto e innovazione culturale. Ha curato e realizzato progetti con alcuni dei più importanti artisti urbani internazionali: Blu, Momo, Agostino Iacurci, Borondo, Aryz, 108, Edoardo Tresoldi e Sten & Lex.
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