Articolo di :

Melina Malomodo

Prospettive / 2
Oltre natura e cultura

Prospettive / 2
Oltre natura e cultura
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“Prospettive” si propone di essere una raccolta di saggi brevi. È un progetto ideato e curato da Francesca Melina. Tutte le note al testo e la bibliografia di riferimento possono essere consultate in fondo alla pagina. È possibile scaricare qui la versione off-line .

Che significato ha l’arte oggi e quale ruolo è in grado di ricoprire nello spazio pubblico? Alla luce delle radicali trasformazioni che caratterizzano la contemporaneità a tutti i livelli – ambientale, culturale, sociale, politico ed economico – come sta cambiando il nostro agire nel mondo e, di conseguenza, come sono cambiate le nostre produzioni artistiche? E, infine, qual è – se esiste – il mutamento di sguardo che a sua volta l’arte è in grado di produrre? Quale il suo potere trasformativo? In questo spazio si interrogheranno le relazioni che l’arte è in grado di generare e, da un punto di vista metodologico, faremo tutto questo proprio ponendo in relazione differenti prospettive di differenti attorə che gravitano attorno a questo mondo: l’obiettivo finale sarà quello di far emergere tra le maglie di queste riflessioni le caratteristiche della svolta etica che è oggi in essere e alcune ipotesi per una riscrittura collettiva della pratica artistica e del suo ruolo all’interno delle nostre vite. Come dice il titolo stesso, una serie di prospettive che possano generare, anche se solo implicitamente, un manifesto di buone intenzioni per la pratica artistica nell’epoca del Capitalocene.

Nella prima parte di prospettive abbiamo parlato di una frattura illuminata oggi dalla crisi climatica e dalle nuove consapevolezze che ha portato con sé. Questa porta ad una necessità di trasformazione e di cambiamento che si accompagna ad un mutamento delle nostre produzioni culturali. Prima di entrare nel merito di come si stia agendo questa che, tra molte virgolette, potremmo chiamare «rivoluzione» proviamo a fare chiarezza su quale sia la portata di ciò che stiamo attraversando. Che cosa ci ha condotto a questo punto di rottura? Quale la traiettoria che ha portato all’esigenza di cambiare il nostro sguardo?

La prospettiva di Stefano Mancuso 1 dà un’accurata descrizione di una serie di motivazioni tutte biologiche che hanno guidato il nostro agire e che, caratterizzandoci da un punto di vista strutturale, hanno contribuito a definire le nostre categorie epistemiche, ovvero le nostre modalità di guardare e conoscere il mondo. Il nostro essere biologico è, in sintesi, capace di situare la nostra prospettiva. Potrebbe sembrare un’affermazione scontata, ma non lo è affatto: osservando il resto del creato, infatti, non stentiamo a credere che la dimensione biologica possa essere determinante, ma tutto questo risulta molto più problematico se portato sul piano di ciò che ci piace chiamare umanità, ovvero un insieme di creature dotate di coscienza e quindi capaci di andare oltre la determinazione biologica e corporea, insomma di autodeterminarsi consapevolmente. D’altra parte risulta evidente, una volta mutato punto di vista, come ciò che definiamo umano sia tutt’altro che esente da determinazioni biologiche e che questa tipologia di pensiero si inscriva direttamente in quella che abbiamo già definito come la distinzione artificialmente operata tra naturale e culturale, tra umano e oggettuale. Come afferma Mancuso, la nostra struttura fisica che mette a capo un cervello e che vede gli organi e le parti come appendici subordinate al suo controllo, ha una diretta influenza sul nostro modo di essere soggettə e, quindi, sull’inquadratura prospettica che applichiamo al mondo. Siamo portatə strutturalmente ad uno sguardo verticistico che colloca noi – che strano! – nel vertice in questione. Ribaltando questa prospettiva che pone al centro il cervello e quindi il pensiero, Mancuso ridefinisce il concetto stesso di intelligenza ri-calibrandolo senza assecondare la nostra determinazione biologica. La caratteristica, infatti, che secondo lo studioso sarebbe centrale nel nostro modo di guardare a qualcosa come intelligente è, in primo luogo, il movimento. La capacità, quindi, di occupare attivamente uno spazio interagendovi visibilmente, re-agendo a stimoli esterni e modificandolo è ciò che l’Uomo 2 reputa intelligenza: la soluzione di problemi tramite un’azione, l’essere dotati – per dirla con le sue parole – di animus, ovvero letteralmente di capacità di essere animati – parola che non può che far risuonare il concetto di Anima e, quindi, di Spirito. Questo presuppone che, nel nostro immaginario, ciò che è intelligente di fatto ci assomigli, occupi lo spazio in un modo simile al nostro e trovi soluzioni evolutive attraverso la stessa metodologia. Pensiamo in questo senso allo stereotipo classico dell’alieno: un essere strano ma dotato di occhi, qualcosa di simile ad una bocca e ad un naso o comunque capace di svolgere la stessa funzione, arti mobili e mani – anche se con un numero variabile di dita. Insomma, se anche ci si presentasse davanti l’intelligenza più evoluta dell’universo, se essa fosse qualcosa che consideriamo inerte – un sasso, una padella o uno yogurt – molto probabilmente non ce ne accorgeremmo. Per uscire da questa miopia radicata nella nostro agire strutturale, Mancuso prende ad esempio le piante, organismi organizzati differentemente da noi ma che da un punto di vista evolutivo hanno dimostrato di essere molto più intelligenti. In che senso? Assumiamo come definizione di intelligenza la seguente proposizione: intelligenza è «abilità di risolvere problemi»3. Le piante4, pur rimanendo ferme hanno una capacità di risolvere problemi molto più brillante in termini evolutivi della nostra. Se lo scopo di una specie è riprodursi e prosperare, l’umanità di fronte alla varietà del mondo vegetale impallidisce sia da un punto di vista numerico che di varietà di specie. Posto che se effettivamente l’intelligenza è abilità di risolvere problemi e che senza intelligenza non può esserci vita, non solo non saremmo a capo del vivente, ma il nostro essere biologico stesso ci avrebbe tratto in inganno: costitutivamente presuntuosi, possiamo forse parzialmente scagionare i seguaci di Cartesio dall’accusa di aver prodotto la catastrofica frattura tra natura e cultura: una natura beffarda ci avrebbe illuso e condotto negli anni verso il punto di rottura con cui ci troviamo a fare i conti oggi.
Rimane di fatto evidente che l’esserə umanə abbia trovato delle soluzioni evolutive differenti dagli altri esseri che popolano il mondo. Come afferma Roger Caillos che siamo infatti costitutivamente portati ad evolverci fabbricando soluzioni esterne per sopravvivere.
«La sua politica [quella dell’esserə umanə] consiste nello scartare le soluzioni organiche, che modificano il corpo: queste hanno il difetto di essere fisse e incompatibili tra loro. L’uomo si fabbrica delle soluzioni esterne, utilizzabili di conseguenza in una infinità di combinazioni.»5
Ci siamo dunque convinti che differente fosse sinonimo di migliore, traendo dalle nostre creazioni, dalla scienza e dalle nostre produzioni culturali un senso di potenza: quel senso di potenza di creare dal nulla che è proprio solo di Dio. Tuttavia, la scienza rimane l’illusione con cui l’esserə umanə si è convinto di potersi avvicinare all’onnipotenza dimenticandosi di essere un esserə tra i molti. Guardare in questa direzione è il meccanismo di difesa che ci ha consentito di costruire un universo di sicurezze nel quale tutto possiamo indagare e conoscere, dimenticando per un momento l’angoscia dell’oscurità dell’ignoto. Proprio abbracciando quest’oscurità oggi possiamo operare un cambiamento, cercando nel nostro agire le similitudini con ciò che ci circonda piuttosto che escludendocene: la coscienza dell’indeterminatezza è la chiave, l’impossibilità di afferrare totalmente non solo ciò che ci circonda ma anche noi stessə.
La consapevolezza della dipendenza delle nostre produzioni culturali dal nostro essere biologico ci riporta violentemente alla pari – se non ad una posizione d’inferiorità – rispetto al resto del vivente. Potremmo chiamare ciò che ne consegue un’operazione di decostruzione epistemica del soggetto Uomo: il nostro modo di conoscere, tutte quelle attività che si pensavano essere caratterizzanti della nostra specie – dal pensiero alle nostre produzioni culturali – vengono rilette come parte di una linea evolutiva che ci caratterizza sì, ma non qualitativamente. Il concetto stesso di soggetto è riletto in termini prospettici: accogliendo l’indefinitezza dell’essere, il soggetto è una semplice inquadratura, una visione specifica e soggettiva sul mondo e, in quanto tale, né assolutistica né immutabile. La soggettività è un punto di vista, una definizione con cui delimitiamo un interno ed un esterno a noi e, in definitiva, una produzione culturale. Tanto quanto la scienza, il soggetto è stato un appiglio ad un universo di certezze nel quale abbiamo la possibilità di individuarci come esserə specificə: in un mondo di ipersoggetti, ovvero di individuə che proiettano sul mondo esterno le/a partire dalle proprie determinazioni interne, oggi dovremmo abbracciare un’idea di soggetto depotenziato – che potremmo chiamare iposoggetto6– caratterizzato dal decentramento, dall’indefinitezza di cui abbiamo parlato. Un centro oscuro e indeterminato che ci pone già di per sé in una eco-logica, in una prospettiva che abbraccia il resto dell’animato e dell’inanimato in una catena di relazioni.

Chiediamoci ora: che cosa significa nel concreto rilettura in chiave biologica delle nostre produzioni culturali? Qual è la portata di questa affermazione e che cosa comporta? Tra tutte le nostre produzioni culturali, l’arte può diventare riflesso di questo mutamento di sguardo: per dirlo in altre parole, rappresenta l’inquadratura 7 peculiare dell’esserə umanə, una modalità attraverso cui comprendere, narrare e ri-narrare la nostra presenza sul pianeta.  Per noi l’arte è uno specchio attraverso il quale ci raccontiamo, esorcizziamo gli eventi traumatici e comprendiamo, riguardandole, le nostre identità. D’altra parte, ha la funzione di avvicinarci al centro oscuro e all’indefinitezza di cui abbiamo parlato: nell’esperienza estetica abbiamo a che fare con qualcosa che riconosciamo solo in parte, con un oggetto che produce attivamente un’azione su di noi della quale non comprendiamo completamente la natura pur sentendola affine.
Per questo oggi la produzione artistica può fungere, da un lato, da esempio per comprendere meglio che cosa si intenda per rilettura in chiave biologica delle nostre produzioni culturali, e, dall’altro, anche essere mezzo con il quale osservare la portata di questo mutamento. L’arte – se assumiamo questa nuova prospettiva seguendo quanto detto da Caillois – si inscrive in un’evoluzione necessaria e diviene uno strumento adattivo con il quale, come abbiamo accennato, costruiamo narrazioni su noi stessə e sul mondo e ci guardiamo dall’esterno. Possiamo dire che sia sì, un’espressione tipicamente umana nei termini e nella forma con la quale siamo abituati a parlarne – per intenderci e fare qualche esempio l’arte dei quadri e della tradizione delle arti visive, teatrali e musicali – ma variə studiosə leggono in altri esseri viventi meccanismi produttivi analoghi. Se l’arte viene riletta come parte del fenomeno di esternalizzazione delle soluzioni evolutive della nostra specie è in ultima analisi paragonabile ai disegni geometrici sulle ali delle farfalle. In questo senso la figura dell’artista andrebbe letta secondo Caillois come un tratto di specie che nel caso delle ali delle farfalle si esplica a livello di specie tutta, facendo passare in secondo piano l’arbitrio del singolo e che nel caso dell’umanità si esprime solo in singolə individuə che esprimono il loro stare al mondo creando opere d’arte. Tutt’altro, quindi, che una visione romantica del produrre artistico e che, al contrario, ci porta a leggere tanto nell’insetto che nell’esserə umanə una forma d’obbedienza «alla medesima legge organica dell’universo» 8.
Insomma, «i quadri dei pittori» sarebbero, quindi, la varietà umana dei disegni sulle ali delle farfalle, questo non tanto da un punto di vista estetico – e quindi relativo alla ricerca del bello – quanto come forma di osservazione dell’altro. Per dirlo in altre parole, non dobbiamo pensare che le farfalle vedano le ali delle loro simili così come le vediamo noi – basti pensare che vedono in ultravioletti – così come le farfalle non scambieranno mai un dipinto di natura morta con un fiore sul quale posarsi: in sintesi, l’arte e i disegni geometrici sulle ali delle farfalle possono essere accomunate da un punto di vista più funzionale che formale. Dalla funzione di avvertimento ai predatori e di prevenzione da pericoli esterni, passando dalla varietà di colorazioni e dalla loro geometria che altro non hanno che la funzione di ammaliare gli esemplari del sesso opposto, per arrivare alle funzioni di mimetizzazione, i disegni sulle ali delle farfalle sono una forma d’arte incarnata che sfrutta, così come anche per altre specie, un’armonia caratteristica della natura tutta. Sembra insomma che l’arte sia un tratto evolutivo sul quale non abbiamo l’esclusiva. O, meglio, ciò che noi chiamiamo arte è naturalmente definibile come una tipologia di comunicazione con il mondo esterno che non ha quindi esclusivamente a che fare con il bello o con ciò che, dal Romanticismo in poi, siamo stati abituati a pensare che sia l’estetica: sarebbe piuttosto un’attitudine adattiva specifica a risolvere problemi in un modo tutto particolare e caratteristico del vivente – e forse non solo. Guardando quindi alle similitudini con quello che ci circonda, stiamo andando oggi verso un fenomeno che ci porta a ragionare sull’ampiezza e sulla complessità delle nostre identità, piuttosto che individuarne i confini. Guardando al non umano ci possiamo rendere conto di come ciò che pensavamo fosse capace di caratterizzarci in realtà ci ri-getta nella produzione dinamica e incessante della Natura. Questo, allontanandoci da tutte le forme di antropocentrismo: tanto da quelle che ci collocano al centro delle dinamiche del mondo, quanto dalle pericolose forme di proiezione del nostro sguardo su ciò che ci circonda.
Come si è inscritto questo mutamento di prospettiva nelle formazioni artistiche odierne? Quali caratteristiche assume la produzione artistica oggi? Come l’azione artistica può promuovere un’eco-logica e accompagnarci nella svolta etica necessaria per affrontare la crisi climatica? Come sempre, ci lasciamo con delle domande sperando di aver iniziato a dare qualche risposta.

Francesca Melina
Francesca Melina è un esserə umanə. Classe 1997 ha trascorso la sua vita sino ad ora ad interrogarsi e a sperimentarsi in vari campi del sapere. Ha da sempre una personalità eclettica e la difficoltà ad applicare a se stessa delle etichette specifiche. Ha studiato Filosofia e si è laureata in Magistrale con una tesi in etica-estetica. Non si considera né una filosofa, né un’artista. Vive leggendo, studiando, scrivendo e disegnando sui muri (ma non solo) come Malomodo, un’azione artistica che produce e sviluppa il suo approccio nel contesto dell'arte pubblica, sperimentando metodi multidisciplinari.

Prospettive / 1
per un manifesto di buone intenzioni.

Prospettive / 1
per un manifesto di buone intenzioni.
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“Prospettive” si propone di essere una raccolta di saggi brevi. È un progetto ideato e curato da Francesca Melina. Tutte le note al testo e la bibliografia di riferimento possono essere consultate in fondo alla pagina. È possibile scaricare qui la versione off-line .

Che significato ha l’arte oggi e quale ruolo è in grado di ricoprire nello spazio pubblico?
Alla luce delle radicali trasformazioni che caratterizzano la contemporaneità a tutti i livelli – ambientale, culturale, sociale, politico ed economico – come sta cambiando il nostro agire nel mondo e, di conseguenza, come sono cambiate le nostre produzioni artistiche? E, infine, qual è – se esiste – il mutamento di sguardo che a sua volta l’arte è in grado di produrre? Quale il suo potere trasformativo?
Queste domande vogliono aprire ad un’indagine che muove da un’esigenza tanto teorica quanto pratica di re-interrogare il nostro agire nel mondo a fronte di quella che viene chiamata oggi crisi climatica e che sembra aver scosso la società tutta a seguito della presa di coscienza che ha prodotto: la possibile estinzione di massa della nostra specie, una prospettiva che incombe sulla nostra epoca e di cui siamo l’unica causa.
Oggi, dunque, saremmo di fronte ad una svolta etica che porta l’umanità a rimettere in discussione i suoi principi ed il suo posto nel mondo. Questo ci porta a parlare, in un modo che sembra necessario e non più procrastinabile, di un effettivo mutamento del nostro agire e, quindi, anche in generale del nostro produrre e, in particolare, delle nostre produzioni culturali. Proprio a partire dalle nostre produzioni culturali, quindi, e scegliendo l’arte come rappresentante eminente di questo cambiamento di sguardo cercheremo di interrogare questo mutamento di paradigma.
Partendo dall’assunto che ogni atto artistico è un’azione capace potenzialmente di costruire relazioni e riflessioni, nonché di modificare le nostre pratiche quotidiane e dunque il nostro stesso habitus, raccoglieremo in questa rubrica – che potrebbe essere più puntualmente definita come una raccolta di saggi brevi – una serie di riflessioni per provare a rispondere alle domande che abbiamo posto in apertura. Tutto questo, adottando una visione filosofica situata 1 che potremmo semplificare definendola come una concezione primariamente etica dell’atto estetico e che vede nell’agire artistico una forma di azione politica capace anche di generare dispositivi di emancipazione e di riscrivere le nostre categorie epistemiche. In questo spazio, dunque, si interrogheranno le relazioni che l’arte è in grado di generare e, da un punto di vista metodologico, faremo tutto questo proprio ponendo in relazione differenti prospettive di differenti attorə che gravitano attorno a questo mondo: l’obiettivo finale sarà quello di far emergere tra le maglie di queste riflessioni le caratteristiche della svolta etica che è oggi in essere e alcune ipotesi per una riscrittura collettiva della pratica artistica e  del suo ruolo all’interno delle nostre vite. Come dice il titolo stesso, una serie di prospettive che possano generare, anche se solo implicitamente, un manifesto di buone intenzioni per la pratica artistica nell’epoca del Capitalocene.

Ora un po’ di contesto: cominciamo guardandoci attorno. La crisi climatica è certamente un fatto che non è più possibile ignorare e le cui conseguenze sono sempre più evidenti nel nostro quotidiano: potremo forse un giorno riguardare alla nostra epoca storica come a quel momento in cui la natura ha cercato di riprendersi a gomitate il suo spazio, contestualmente al momento in cui lə esserə umanə si sono trovatə a vivere il rischio di una potenziale estinzione di massa. L’emergenza sanitaria derivante dal SarsCov19, lo stato di pandemia globale e la crisi economica che ha portato, l’esperienza di lockdown e di privazione di libertà che abbiamo vissuto, in un futuro non molto lontano potranno essere lette come i sintomi del nostro rapido e catastrofico avvicinamento alla conclusione della nostra storia sulla Terra. Lungi dal voler proporre una visione catastrofista – poco efficace sul piano metodologico ed operativo –, tematizzare la situazione emergenziale che attraversiamo è questione di realismo. Sebbene l’opinione pubblica ed il mondo dei media abbiano iniziato ad occuparsene su larga scala da pochi anni a questa parte, in ambito accademico e nel settore scientifico questo argomento è infatti ampiamente diffuso già dalla fine degli anni Ottanta.
Senza dilungarci per il momento sugli aspetti positivi o negativi della massificazione del tema del cambiamento climatico 2, pare comunque doveroso interrogarsi su come sia necessario modificare i nostri atteggiamenti, su quali siano gli strumenti di cui dotarci per gestire, o almeno provarci, quest’emergenza. Proprio alla luce di questa crisi che investe la natura tutta e dunque anche lə esserə umanə, sembra necessario, infatti, interrogarsi su come nominiamo ciò che ci circonda per poterlo osservare da altre prospettive, produrre nuove definizioni.
Antropocene e Capitalocene 3 sono due modi con cui sempre più spesso sentiamo definire questo periodo storico: uno riferito ai cambiamenti di carattere climatico-ambientale, l’altro alle loro cause. Antropocene 4 è il nome attribuito alla nostra era geologica e riguarda le trasformazioni visibili provocate dall’esserə umanə nei processi atmosferici, geologici, idrologici, biosferici e, più in generale, in quelli che possiamo definire gli equilibri che governano il pianeta. Questa definizione si basa quindi sull’evidenza empirica e registrabile di un mutamento climatico e di condizioni di vita sulla terra, ma può risultare problematica in primo luogo rispetto alla definizione di un suo inizio storico esatto, sul quale lə scienziatə non riescono a mettersi totalmente d’accoro; in secondo luogo, rispetto al fatto che il termine anthropos in questa sede risulta fin troppo inclusivo per una trasformazione le cui cause dovrebbero essere più correttamente ricondotte ad una piccola porzione tutta occidentale dell’umanità – lungi dall’essere, come suggerisce il termine stesso, imputabili all’intera specie umanə. Capitalocene, al contrario, è un termine che più propriamente mira alla definizione politica di quest’era geologica spostando l’attenzione sulle cause geopolitiche ed economiche del mutamento climatico. Come sostiene Jason W. Moore «L’Antropocene suona come un allarme – e che allarme è! – ma non può spiegare come questi allarmanti cambiamenti siano avvenuti. Questioni di capitalismo, potere e classe, antropo-centrismo, inquadramenti dualistici di “natura” e “società”, e il ruolo degli stati e degli imperi, sono tutti spesso messi da parte dalla prospettiva dominante dell’Antropocene.» 5. Il termine Capitalocene, lungi dal costituire mera critica, sottenderebbe allo stesso tempo e quasi per contrasto a una direzione in cui è possibile muoversi, che ambisce ad introdurre «un nuovo modo di pensare l’umanità-in-natura, e la natura-in-umanità» 6. Intendiamo qui adottare questa seconda prospettiva, parlando quindi di Capitalocene, sottendendo – da un punto di vista che non vuole essere solo politico – le cause, da un lato, e le implicazioni, dall’altro, che caratterizzano il periodo storico che stiamo vivendo.
Questo problema che possiamo dire essere primariamente epistemologico, ovvero relativo al modo nel quale la scienza e più in generale la conoscenza tutta ha interpretato il mondo nella storia dell’umanità e del pensiero scientifico, ci sta lentamente portando a rimettere in discussione la nostra posizione nel mondo, de-costruendo ruoli di potere consolidati e al contempo aprendo alla definizione di nuovi dispositivi di emancipazione. La necessità impellente di un mutamento di sguardo sembra essere oggi talmente profonda al punto da portarci a mettere in dubbio la nostra stessa natura, il modo nel quale ci siamo conosciutə e definitə nei secoli e, in definitiva, il nostro posto nel mondo. Anche se le barriere teoriche in questo senso sono già state in parte erose dal post-modernismo, è ancora dominante nella percezione collettiva la distinzione che ha sorretto le nostre certezze di specie: la divisione tra una dimensione naturale e una dimensione squisitamente umana e culturale. Questa divisione, che può apparire banale ad un primo sguardo, ha strutturato la nostra società e sorretto le nostre convinzioni per secoli. Se le origini di tale distinzione sono incerte – si potrebbero far risalire ai tempi lontani dell’invenzione dell’agricoltura – è certo invece che il radicalizzarsi ed intensificarsi dei sintomi che essa ha prodotto sono osservabili nel corso della nostra storia e in particolar modo al giorno d’oggi. La fede incrollabile nella ragione, la corsa al progresso – industriale e scientifico – l’idea dell’Uomo 7 come essere scelto da Dio e dotato di potenza: tutto sarebbe frutto, seppur involontario, di quello che Cartesio ha sintetizzato in un semplice assunto. Cogito ergo sum sottende e può aprire le porte ad un’idea tanto semplice quanto pericolosa: penso quindi sono, da cui può derivare sono intelligente e quindi sono e, in quanto intelligente, agisco; per contrasto, ciò che non pensa non agisce, ciò che non pensa non è intelligente, quindi, non è.
Questa visione del mondo ha dato il là ad un’etica e, più in generale, ad una prospettiva che nel mettere l’Uomo al centro e al di sopra di tutto il resto, paradossalmente lo ha deresponsabilizzato nei confronti di tutto ciò che viene considerato non intelligente, il che comprende quindi tutti gli altri esseri viventi e la natura “inanimata”. Questa visione, peraltro, ha portato all’esclusione e alla marginalizzazione di alcune categorie sociali tutte umane il cui processo di re-integrazione nella società come esserə pensanti è in atto da solo da pochi anni a questa parte: si pensi in questo senso alle donne, alle persone razzializzate, alle persone diversamente abilə – giusto per riportare alcuni esempi e ricordarci quanto la categoria d’intelligenza sia ancora attribuita ad un’esigua parte di ciò che popola il mondo.
Di fronte alla natura che si sgretola davanti ai nostri occhi e che richiede a gran voce l’attenzione e la cura che per lungo tempo le abbiamo negato, siamo portati a mettere in campo un nuovo concetto di responsabilità 8 e contemporaneamente a mettere in dubbio la convinzione che ha legittimato questo nostro agire nel mondo: l’immutabilità della Terra. Potremmo infatti affermare che l’idea di una natura eterna non sia più così salda come un tempo e, anzi, potremmo spingerci a dire che essa stessa sembra divenuta soggetta a quella corruttibilità che ci pareva essere propria delle sole creature. E siamo noi la causa di questo mutamento di paradigma: noi, le nostre produzioni culturali – intese nel senso più generale del termine – e le trasformazioni sociali ed economiche che ci hanno portato a quello che poco fa abbiamo definito come un salto descrivibile anche in termini di ere geologiche. Questo, per arrivare a dire che natura e cultura non sono altro, dunque, che oggetti teorici, categorie epistemiche elaborate culturalmente e che, in quanto tali, possano essere soggette ad una riscrittura attiva – lessicale ed epistemica – da parte della collettività tutta, resasi oggi necessaria soprattutto a fronte della presa di coscienza che accompagna il cambiamento climatico.
Come si caratterizza allora questa estensione di responsabilità? Sembra essere giunto il momento – come abbiamo detto inevitabile data questa presa di coscienza – di ampliare i nostri doveri di cura verso la Terra stessa e allargare il nostro sguardo anche a ciò di cui noi esserə umanə, almeno in questa fetta di mondo, non avevamo fino ad ora mai dovuto interessarci: la sopravvivenza stessa della nostra specie. Per quanto anche questo risulti essere un atteggiamento che potremmo definire egoista e dettato esclusivamente da un mero istinto di conservazione, è pur sempre un passo avanti: la natura ci ha riportato alla natura e dobbiamo prendere atto di essere effettivamente impotenti di fronte a qualcosa, parti di un tutto che non controlliamo, né abbiamo mai controllato. Proprio l’auto-esclusione dalla natura che abbiamo operato tramite la creazione di un habitat artificiale – la città – ci ha portato a dimenticare la nostra appartenenza ad un ecosistema più ampio e, cosa forse più importante, non solo nostro; ecosistema che con la crisi ambientale ci riporta alla memoria la sua presenza reclamando la nostra attenzione.
La natura ed i suoi mutamenti impongono la consapevolezza di un’appartenenza della nostra specie ad un organismo più ampio, di cui non siamo che una piccola cellula. Questa presa di coscienza ci dovrebbe costringere, in un certo senso, a riscrivere la nostra prospettiva dell’umanità e il suo posto nell’economia della vita sul pianeta Terra. Come afferma T. Morton sembra necessario oggi modificare la narrazione catastrofista di questa crisi per consentire a tuttə di avvicinarsi alla natura del problema, a ricomprendere la nostra unione con un tutto di cui sempre abbiamo fatto parte e che abbiamo dimenticato: mutare prima il nostro sguardo per poi arrivare alle nostre azioni.
Vi starete chiedendo: ebbene cosa c’entra questo con l’arte? Sembrerebbe proprio che la nostra traiettoria ci stia portando verso un iceberg che abbiamo avvistato, ma che stiamo cercando ancora di evitare. Potremmo dire che lentamente cominciamo a reagire a quest’evidenza. Per questo Capitalocene e non Antropocene: la crisi climatica porta con sé la necessità di mutare paradigma, di cambiare prospettiva; e, come insegna la storia della nostra specie, al mutare del nostro sguardo sul mondo cambiano anche le nostre produzioni culturali. Per questo, quindi, l’arte. In questa transizione verso un futuro più consapevole e, si spera, realmente ecologico e in armonia sembra legittimo chiedersi: l’arte può (e forse dovrebbe) avere un ruolo cruciale per accelerare il citato necessario mutamento di sguardo? Come dovrebbe quindi ri-configurarsi l’operare artistico oggi? O, meglio, quali sono le caratteristiche del mutamento di sguardo che la accompagna e che essa, di conseguenza, assume? Quali caratteristiche assume rispetto alla cultura tutta e alla società?
Chiudiamo come abbiamo aperto, con delle domande: è un percorso in divenire e si spera anche collettivo. Se dobbiamo camminare sulle uova, facciamolo lentamente e tenendoci per mano.

Francesca Melina
Francesca Melina è un esserə umanə. Classe 1997 ha trascorso la sua vita sino ad ora ad interrogarsi e a sperimentarsi in vari campi del sapere. Ha da sempre una personalità eclettica e la difficoltà ad applicare a se stessa delle etichette specifiche. Ha studiato Filosofia e si è laureata in Magistrale con una tesi in etica-estetica. Non si considera né una filosofa, né un’artista. Vive leggendo, studiando, scrivendo e disegnando sui muri (ma non solo) come Malomodo, un’azione artistica che produce e sviluppa il suo approccio nel contesto dell'arte pubblica, sperimentando metodi multidisciplinari.
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