Decorare tutto - MoaiPress

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È il momento di fermarsi qualche istante a ragionare.
Più di due anni fa, chiusi in casa per le misure di contenimento dei contagi, in tante e tanti riflettevamo su come sarebbe stato il mondo post-pandemia: quali trasformazioni questa sospensione forzata avrebbe provocato e come, di conseguenza, avremmo rivalutato le categorie del nostro operare a tutti i livelli, incluso quello artistico.
Ricordo di aver sommessamente sperato, tra le altre cose, che un evento così segnante potesse spingere anche chi dipinge e chi opera nell’arte urbana a rimettere in discussione con rinnovata sensibilità pratiche immutate, arroccate su un linguaggio ormai sfibrato, fiacco e a sua volta frammentato in un’infinità di cocci, riuniti pigramente sotto lo standard operativo – largamente richiesto e tristemente accettato – della pittura puramente decorativa.

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L’emergenza non è ancora finita, anzi si è allargata visti i recenti avvenimenti geopolitici, eppure per chi opera nel settore delle arti urbane la macchina si è rimessa in moto: progetti vecchi e nuovi ripartono e molti muri vengono dipinti. Ma è cambiato qualcosa?
A ben guardare non è cambiato proprio nulla. Ancora molti interventi fatti in strada ricalcano la sola cifra del bello, o “catchy”: qualche foto di attualità – veloce e didascalica – una maschera Photoshop , ctrl+C / ctrl+V, ed il gioco è fatto. Ancora sentiamo parlare di interventi piuttosto che di processi. Ancora vediamo contest e bandi finanziati da soldi pubblici o privati che vogliono artisti da pagare poco per manipolazioni del tessuto urbano redditizie, in termini di decoro, e sbrigative, in termini di tempo e contenuti, in sostanza – per riformulare un noto adagio – “muri belli per popoli muti”, decorati ma pur sempre muti.
Da qui il titolo di questo articolo, una citazione storpiata dell’opera di Cuoghi Corsello 1. Una frase che esprime la necessità di una riflessione critica, un ponte tra quello che c’era e quel che c’è: un approfondimento sulla trasformazione dei contenuti e dei modi di produzione al fine di analizzare i risultati e lo stato dell’arte all’interno delle pratiche di espressione artistica nello spazio pubblico.
Nell’arco di una decade, da quando abbiamo iniziato a vedere i primi Whole Buildings 2 e la nascita di diversi festival in tutta Italia, la scena è cambiata. Ad affiancarsi agli artisti della prima generazione – per la maggior parte tutti provenienti dal graffiti-writing ed appartenenti ad una comunità piuttosto ristretta 3 – si sono presentate nuove figure e diversi fattori che hanno concorso a modificare metodi e pratiche del movimento.
L’avvento, in maniera massiccia, dei social media – Instagram in particolare – è sicuramente un fattore di rilievo nel cambiamento di attitudine, ma ancora di più risulta esserlo il riconoscimento di un valore, culturale, economico e dunque istituzionalizzato della Street Art. In un lasso di tempo piuttosto breve si passa da una pratica disinteressata ad un interesse diffuso verso la pratica, ma ancor di più verso l’oggetto arte urbana: sia da parte del pubblico che degli addetti ai lavori. Cresce il numero di festival soprattutto istituzionali, vengono inaugurati musei a cielo aperto e realizzate mostre in contesti ufficiali, diverse gallerie orientano il loro lavoro in direzione dell’arte urbana e soprattutto sempre più persone, provenienti dai più diversi background iniziano a dipingere/intervenire.

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In poco tempo la pratica di un movimento piuttosto definito e chiuso si diffonde, su scala mondiale, in un corpus ampissimo di stili, tecniche, commistioni, e interessi tanto da compiere un giro semantico completo rispetto al punto di partenza: se ai suoi albori la Street Art può essere definibile proprio in relazione alle sue caratteristiche di “denuncia politica, economica e sociale, cosi come [dalla] volontà di sovvertire i codici della comunicazione mass-mediologica [attraverso] una guerriglia urbana pronta a risvegliare le masse dal torpore della narcolessia comunicativa e tecnologica” 4 oggi le maglie del movimento – in termini di pratiche e di partecipanti – sono così larghe da renderne impossibile il riconoscimento entro le stesse categorie. Forse – ipotizziamo – la Street Art come la conoscevamo non esiste più e ciò che un tempo si posizionava fuori dal sistema – per analizzarlo, criticarlo, distruggerlo o sovvertirlo – oggi rientra, a gamba tesa, dentro al sistema: pubblicità, rigenerazione urbana o decorazione sono soltanto alcune delle categorie che andrebbero approfondite per chiarire come l’arte urbana sia oggi – molto spesso – soltanto uno strumento ad uso e consumo da parte di enti, aziende e istituzioni e quindi uno strumento di potere.
In risposta e in controtendenza a questa grande trasformazione c’è stato da parte di alcuni artist* e curator* un forte avvicinamento alle pratiche dell’arte partecipata e quindi una rimessa in discussione delle loro posizioni e del loro lavoro all’interno degli spazi pubblici: situazioni e contesti in cui l’arte e le sue pratiche sono state poste ad un livello comune di condivisione per la realizzazione di processi – e non di interventi – realmente trasformativi e utili ai luoghi ed alle persone. Anche qui è necessario scendere sotto la superficie dei progetti per comprenderne davvero l’essenza, gli scopi e le relazioni di potere evitando così di farsi ingannare dalla bella apparenza.

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Proprio la consistente trasformazione a cui abbiamo assistito rende necessario un ragionamento preliminare utile a valutare tutto ciò che viene prodotto nello spazio pubblico attraverso l’arte e per ottenere un orizzonte di riferimento chiaro su cui poggiare lo sguardo.
Com’è possibile quindi capire e analizzare un’opera o un progetto di arte urbana? Di fronte ad un muro o a un’istallazione cosa dovremmo fare per dare un giudizio consapevole e concreto? Cosa fa la differenza tra un intervento speculativo – non per forza in termini economici – ed un intervento di “arte sociale”5 ?
Non esistono ovviamente risposte univoche, valide per ogni opera, progetto o contesto ma esiste la possibilità di stilare una lista di domande – in costante e necessario aggiornamento – sempre utili a comprendere e definire i progetti di arte pubblica, nonché a chiamare le cose con il proprio nome.
Partiamo da un classico metodo che, attraverso cinque semplici domande, consente di esplorarne le relazioni di causa-effetto.
Chi? Chi ha realizzato il progetto? Chi sono i curator*/organizzator*? Chi sono l* artist* e qual è il loro percorso? Il “chi?” è una domanda fondamentale che permettere di riconoscere gli attori e le attrici sociali che hanno partecipato alla realizzazione e al posizionamento dell’opera o del progetto nel relativo contesto. Molto spesso si tratta di associazioni di promozione culturale ma è importante scavare più a fondo per conoscere le storie, gli interessi e le motivazioni fondamentali che hanno portato alla con-partecipazione al progetto.
Che cosa? Cosa è rappresentato? Che cosa è stato fatto? Murales, contest, bando pubblico, installazione, graffito, opera di urbanismo tattico o processo condiviso di arte partecipata? I risultati visibili nello spazio urbano sono solamente la punta di un iceberg che ha alla sua base le reali motivazioni e intenzioni della sua esistenza. Ciò che determina il valore di un’opera non è soltanto il suo valore estetico: visto il sistema entro il quale si posiziona e considerata la vocazione originaria di questo tipo di espressione artistica, è necessario sorpassare la materialità dell’opera per leggere tra le righe della sua realizzazione.
Quando? Quando è stata realizzata l’opera? Il tempo è caratteristica imprescindibile da tenere in conto. La stessa opera realizzata in momenti differenti potrebbe avere significati e valori totalmente diversi. Per fare un esempio pratico potremmo tenere in considerazione la concomitanza di piani strategici politici o di elezioni durante la realizzazione di opere: questa caratteristica è un importante campanello di allarme per la valutazione di progetti che potrebbero essere molto più sbilanciati a favore di finalità propagandistiche anziché sociali, culturali o artistiche.
Dove? “Lo spazio pubblico, per definizione, è di chiunque, operare in strada è quindi anzitutto una responsabilità verso coloro che tutti i giorni abitano o attraversano determinati luoghi”6 . Ogni opera, nessuna esclusa, si inserisce in un contesto ed è fondamentale valutare come questo inserimento abbia avuto luogo: che sia dall’alto, dal basso o in maniera orizzontale, è importante capire come ciò che sta intorno all’opera ha contribuito alla sua creazione e quale sia stato il grado di attenzione che i protagonisti hanno avuto rispetto al contesto.
Perché? Cosa ha spinto gli attori in causa a produrre il progetto? Quali sono le finalità? Quali sono i risultati? Ad ogni azione corrisponde una conseguenza, in modo particolare se queste azioni si sviluppano in uno spazio nel quale una comunità si riconosce, in un luogo quindi. Operare attraverso l’arte nello spazio pubblico non può essere giustificato dalla sola pretesa di abbellire la città o, ancor peggio, di contrapporre gli interventi decorativi a quelli vandalici per sconfiggere il degrado e risolvere attraverso azioni, sempre superficiali e redditizie, questioni complesse di disagio sociale. Realizzare un opera, in uno spazio pubblico, porta con se una fondamentale questione di potere e occupare uno spazio collettivo con un messaggio è altresì una questione politica.
Visto e considerato il mondo in cui viviamo, le emergenze, le necessità che lo caratterizzano e le sfide che il futuro prossimo ci pone di fronte è necessario pretendere chiarezza in ciò che viene fatto nei luoghi, non accontentandosi di narrazioni semplicistiche ma pretendendo percorsi e significati reali e consistenti.
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