Prospettive / 1
per un manifesto di buone intenzioni. - MoaiPress

Prospettive / 1
per un manifesto di buone intenzioni.
Raccolta 10 Giu 2022 Melina Malomodo

“Prospettive” si propone di essere una raccolta di saggi brevi. È un progetto ideato e curato da Francesca Melina. Tutte le note al testo e la bibliografia di riferimento possono essere consultate in fondo alla pagina. È possibile scaricare qui la versione off-line .

Che significato ha l’arte oggi e quale ruolo è in grado di ricoprire nello spazio pubblico?
Alla luce delle radicali trasformazioni che caratterizzano la contemporaneità a tutti i livelli – ambientale, culturale, sociale, politico ed economico – come sta cambiando il nostro agire nel mondo e, di conseguenza, come sono cambiate le nostre produzioni artistiche? E, infine, qual è – se esiste – il mutamento di sguardo che a sua volta l’arte è in grado di produrre? Quale il suo potere trasformativo?
Queste domande vogliono aprire ad un’indagine che muove da un’esigenza tanto teorica quanto pratica di re-interrogare il nostro agire nel mondo a fronte di quella che viene chiamata oggi crisi climatica e che sembra aver scosso la società tutta a seguito della presa di coscienza che ha prodotto: la possibile estinzione di massa della nostra specie, una prospettiva che incombe sulla nostra epoca e di cui siamo l’unica causa.
Oggi, dunque, saremmo di fronte ad una svolta etica che porta l’umanità a rimettere in discussione i suoi principi ed il suo posto nel mondo. Questo ci porta a parlare, in un modo che sembra necessario e non più procrastinabile, di un effettivo mutamento del nostro agire e, quindi, anche in generale del nostro produrre e, in particolare, delle nostre produzioni culturali. Proprio a partire dalle nostre produzioni culturali, quindi, e scegliendo l’arte come rappresentante eminente di questo cambiamento di sguardo cercheremo di interrogare questo mutamento di paradigma.
Partendo dall’assunto che ogni atto artistico è un’azione capace potenzialmente di costruire relazioni e riflessioni, nonché di modificare le nostre pratiche quotidiane e dunque il nostro stesso habitus, raccoglieremo in questa rubrica – che potrebbe essere più puntualmente definita come una raccolta di saggi brevi – una serie di riflessioni per provare a rispondere alle domande che abbiamo posto in apertura. Tutto questo, adottando una visione filosofica situata 1 che potremmo semplificare definendola come una concezione primariamente etica dell’atto estetico e che vede nell’agire artistico una forma di azione politica capace anche di generare dispositivi di emancipazione e di riscrivere le nostre categorie epistemiche. In questo spazio, dunque, si interrogheranno le relazioni che l’arte è in grado di generare e, da un punto di vista metodologico, faremo tutto questo proprio ponendo in relazione differenti prospettive di differenti attorə che gravitano attorno a questo mondo: l’obiettivo finale sarà quello di far emergere tra le maglie di queste riflessioni le caratteristiche della svolta etica che è oggi in essere e alcune ipotesi per una riscrittura collettiva della pratica artistica e  del suo ruolo all’interno delle nostre vite. Come dice il titolo stesso, una serie di prospettive che possano generare, anche se solo implicitamente, un manifesto di buone intenzioni per la pratica artistica nell’epoca del Capitalocene.

Ora un po’ di contesto: cominciamo guardandoci attorno. La crisi climatica è certamente un fatto che non è più possibile ignorare e le cui conseguenze sono sempre più evidenti nel nostro quotidiano: potremo forse un giorno riguardare alla nostra epoca storica come a quel momento in cui la natura ha cercato di riprendersi a gomitate il suo spazio, contestualmente al momento in cui lə esserə umanə si sono trovatə a vivere il rischio di una potenziale estinzione di massa. L’emergenza sanitaria derivante dal SarsCov19, lo stato di pandemia globale e la crisi economica che ha portato, l’esperienza di lockdown e di privazione di libertà che abbiamo vissuto, in un futuro non molto lontano potranno essere lette come i sintomi del nostro rapido e catastrofico avvicinamento alla conclusione della nostra storia sulla Terra. Lungi dal voler proporre una visione catastrofista – poco efficace sul piano metodologico ed operativo –, tematizzare la situazione emergenziale che attraversiamo è questione di realismo. Sebbene l’opinione pubblica ed il mondo dei media abbiano iniziato ad occuparsene su larga scala da pochi anni a questa parte, in ambito accademico e nel settore scientifico questo argomento è infatti ampiamente diffuso già dalla fine degli anni Ottanta.
Senza dilungarci per il momento sugli aspetti positivi o negativi della massificazione del tema del cambiamento climatico 2, pare comunque doveroso interrogarsi su come sia necessario modificare i nostri atteggiamenti, su quali siano gli strumenti di cui dotarci per gestire, o almeno provarci, quest’emergenza. Proprio alla luce di questa crisi che investe la natura tutta e dunque anche lə esserə umanə, sembra necessario, infatti, interrogarsi su come nominiamo ciò che ci circonda per poterlo osservare da altre prospettive, produrre nuove definizioni.
Antropocene e Capitalocene 3 sono due modi con cui sempre più spesso sentiamo definire questo periodo storico: uno riferito ai cambiamenti di carattere climatico-ambientale, l’altro alle loro cause. Antropocene 4 è il nome attribuito alla nostra era geologica e riguarda le trasformazioni visibili provocate dall’esserə umanə nei processi atmosferici, geologici, idrologici, biosferici e, più in generale, in quelli che possiamo definire gli equilibri che governano il pianeta. Questa definizione si basa quindi sull’evidenza empirica e registrabile di un mutamento climatico e di condizioni di vita sulla terra, ma può risultare problematica in primo luogo rispetto alla definizione di un suo inizio storico esatto, sul quale lə scienziatə non riescono a mettersi totalmente d’accoro; in secondo luogo, rispetto al fatto che il termine anthropos in questa sede risulta fin troppo inclusivo per una trasformazione le cui cause dovrebbero essere più correttamente ricondotte ad una piccola porzione tutta occidentale dell’umanità – lungi dall’essere, come suggerisce il termine stesso, imputabili all’intera specie umanə. Capitalocene, al contrario, è un termine che più propriamente mira alla definizione politica di quest’era geologica spostando l’attenzione sulle cause geopolitiche ed economiche del mutamento climatico. Come sostiene Jason W. Moore «L’Antropocene suona come un allarme – e che allarme è! – ma non può spiegare come questi allarmanti cambiamenti siano avvenuti. Questioni di capitalismo, potere e classe, antropo-centrismo, inquadramenti dualistici di “natura” e “società”, e il ruolo degli stati e degli imperi, sono tutti spesso messi da parte dalla prospettiva dominante dell’Antropocene.» 5. Il termine Capitalocene, lungi dal costituire mera critica, sottenderebbe allo stesso tempo e quasi per contrasto a una direzione in cui è possibile muoversi, che ambisce ad introdurre «un nuovo modo di pensare l’umanità-in-natura, e la natura-in-umanità» 6. Intendiamo qui adottare questa seconda prospettiva, parlando quindi di Capitalocene, sottendendo – da un punto di vista che non vuole essere solo politico – le cause, da un lato, e le implicazioni, dall’altro, che caratterizzano il periodo storico che stiamo vivendo.
Questo problema che possiamo dire essere primariamente epistemologico, ovvero relativo al modo nel quale la scienza e più in generale la conoscenza tutta ha interpretato il mondo nella storia dell’umanità e del pensiero scientifico, ci sta lentamente portando a rimettere in discussione la nostra posizione nel mondo, de-costruendo ruoli di potere consolidati e al contempo aprendo alla definizione di nuovi dispositivi di emancipazione. La necessità impellente di un mutamento di sguardo sembra essere oggi talmente profonda al punto da portarci a mettere in dubbio la nostra stessa natura, il modo nel quale ci siamo conosciutə e definitə nei secoli e, in definitiva, il nostro posto nel mondo. Anche se le barriere teoriche in questo senso sono già state in parte erose dal post-modernismo, è ancora dominante nella percezione collettiva la distinzione che ha sorretto le nostre certezze di specie: la divisione tra una dimensione naturale e una dimensione squisitamente umana e culturale. Questa divisione, che può apparire banale ad un primo sguardo, ha strutturato la nostra società e sorretto le nostre convinzioni per secoli. Se le origini di tale distinzione sono incerte – si potrebbero far risalire ai tempi lontani dell’invenzione dell’agricoltura – è certo invece che il radicalizzarsi ed intensificarsi dei sintomi che essa ha prodotto sono osservabili nel corso della nostra storia e in particolar modo al giorno d’oggi. La fede incrollabile nella ragione, la corsa al progresso – industriale e scientifico – l’idea dell’Uomo 7 come essere scelto da Dio e dotato di potenza: tutto sarebbe frutto, seppur involontario, di quello che Cartesio ha sintetizzato in un semplice assunto. Cogito ergo sum sottende e può aprire le porte ad un’idea tanto semplice quanto pericolosa: penso quindi sono, da cui può derivare sono intelligente e quindi sono e, in quanto intelligente, agisco; per contrasto, ciò che non pensa non agisce, ciò che non pensa non è intelligente, quindi, non è.
Questa visione del mondo ha dato il là ad un’etica e, più in generale, ad una prospettiva che nel mettere l’Uomo al centro e al di sopra di tutto il resto, paradossalmente lo ha deresponsabilizzato nei confronti di tutto ciò che viene considerato non intelligente, il che comprende quindi tutti gli altri esseri viventi e la natura “inanimata”. Questa visione, peraltro, ha portato all’esclusione e alla marginalizzazione di alcune categorie sociali tutte umane il cui processo di re-integrazione nella società come esserə pensanti è in atto da solo da pochi anni a questa parte: si pensi in questo senso alle donne, alle persone razzializzate, alle persone diversamente abilə – giusto per riportare alcuni esempi e ricordarci quanto la categoria d’intelligenza sia ancora attribuita ad un’esigua parte di ciò che popola il mondo.
Di fronte alla natura che si sgretola davanti ai nostri occhi e che richiede a gran voce l’attenzione e la cura che per lungo tempo le abbiamo negato, siamo portati a mettere in campo un nuovo concetto di responsabilità 8 e contemporaneamente a mettere in dubbio la convinzione che ha legittimato questo nostro agire nel mondo: l’immutabilità della Terra. Potremmo infatti affermare che l’idea di una natura eterna non sia più così salda come un tempo e, anzi, potremmo spingerci a dire che essa stessa sembra divenuta soggetta a quella corruttibilità che ci pareva essere propria delle sole creature. E siamo noi la causa di questo mutamento di paradigma: noi, le nostre produzioni culturali – intese nel senso più generale del termine – e le trasformazioni sociali ed economiche che ci hanno portato a quello che poco fa abbiamo definito come un salto descrivibile anche in termini di ere geologiche. Questo, per arrivare a dire che natura e cultura non sono altro, dunque, che oggetti teorici, categorie epistemiche elaborate culturalmente e che, in quanto tali, possano essere soggette ad una riscrittura attiva – lessicale ed epistemica – da parte della collettività tutta, resasi oggi necessaria soprattutto a fronte della presa di coscienza che accompagna il cambiamento climatico.
Come si caratterizza allora questa estensione di responsabilità? Sembra essere giunto il momento – come abbiamo detto inevitabile data questa presa di coscienza – di ampliare i nostri doveri di cura verso la Terra stessa e allargare il nostro sguardo anche a ciò di cui noi esserə umanə, almeno in questa fetta di mondo, non avevamo fino ad ora mai dovuto interessarci: la sopravvivenza stessa della nostra specie. Per quanto anche questo risulti essere un atteggiamento che potremmo definire egoista e dettato esclusivamente da un mero istinto di conservazione, è pur sempre un passo avanti: la natura ci ha riportato alla natura e dobbiamo prendere atto di essere effettivamente impotenti di fronte a qualcosa, parti di un tutto che non controlliamo, né abbiamo mai controllato. Proprio l’auto-esclusione dalla natura che abbiamo operato tramite la creazione di un habitat artificiale – la città – ci ha portato a dimenticare la nostra appartenenza ad un ecosistema più ampio e, cosa forse più importante, non solo nostro; ecosistema che con la crisi ambientale ci riporta alla memoria la sua presenza reclamando la nostra attenzione.
La natura ed i suoi mutamenti impongono la consapevolezza di un’appartenenza della nostra specie ad un organismo più ampio, di cui non siamo che una piccola cellula. Questa presa di coscienza ci dovrebbe costringere, in un certo senso, a riscrivere la nostra prospettiva dell’umanità e il suo posto nell’economia della vita sul pianeta Terra. Come afferma T. Morton sembra necessario oggi modificare la narrazione catastrofista di questa crisi per consentire a tuttə di avvicinarsi alla natura del problema, a ricomprendere la nostra unione con un tutto di cui sempre abbiamo fatto parte e che abbiamo dimenticato: mutare prima il nostro sguardo per poi arrivare alle nostre azioni.
Vi starete chiedendo: ebbene cosa c’entra questo con l’arte? Sembrerebbe proprio che la nostra traiettoria ci stia portando verso un iceberg che abbiamo avvistato, ma che stiamo cercando ancora di evitare. Potremmo dire che lentamente cominciamo a reagire a quest’evidenza. Per questo Capitalocene e non Antropocene: la crisi climatica porta con sé la necessità di mutare paradigma, di cambiare prospettiva; e, come insegna la storia della nostra specie, al mutare del nostro sguardo sul mondo cambiano anche le nostre produzioni culturali. Per questo, quindi, l’arte. In questa transizione verso un futuro più consapevole e, si spera, realmente ecologico e in armonia sembra legittimo chiedersi: l’arte può (e forse dovrebbe) avere un ruolo cruciale per accelerare il citato necessario mutamento di sguardo? Come dovrebbe quindi ri-configurarsi l’operare artistico oggi? O, meglio, quali sono le caratteristiche del mutamento di sguardo che la accompagna e che essa, di conseguenza, assume? Quali caratteristiche assume rispetto alla cultura tutta e alla società?
Chiudiamo come abbiamo aperto, con delle domande: è un percorso in divenire e si spera anche collettivo. Se dobbiamo camminare sulle uova, facciamolo lentamente e tenendoci per mano.

Francesca Melina
Francesca Melina è un esserə umanə. Classe 1997 ha trascorso la sua vita sino ad ora ad interrogarsi e a sperimentarsi in vari campi del sapere. Ha da sempre una personalità eclettica e la difficoltà ad applicare a se stessa delle etichette specifiche. Ha studiato Filosofia e si è laureata in Magistrale con una tesi in etica-estetica. Non si considera né una filosofa, né un’artista. Vive leggendo, studiando, scrivendo e disegnando sui muri (ma non solo) come Malomodo, un’azione artistica che produce e sviluppa il suo approccio nel contesto dell'arte pubblica, sperimentando metodi multidisciplinari.
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