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OK IL GRUPPO E’ GIUSTO. TRA AUTOPRODUZIONE E PRATICA ESPLORATIVA DEI LUOGHI URBANI - MoaiPress
OK IL GRUPPO E’ GIUSTO. TRA AUTOPRODUZIONE E PRATICA ESPLORATIVA DEI LUOGHI URBANI
Per Asger Jorn, i graffiti1 sono «una forma artistica che sfida l’istituzionalizzazione della creatività e il suo isolamento dalla società […] [e che induce] al comune bisogno d’espressione come attività umana fondamentale»2. Lo stesso bisogno comune, che ha mosso tutti i membri del Gruppo Ok ad agire insieme nello spazio urbano agli inizi del ‘00. Se pensassi gli Ok come un organismo, li paragonerei alla Physalia, la specie più conosciuta di Sifonoforo, formata da una colonia di polipi e meduse, che per la loro sopravvivenza devono cooperare. Il Gruppo Ok si costituisce proprio come una creatura formata da diversi corpi con personalità creative eterogenee, ma uguali nello spirito, che li guida nell’espressione spontanea di se stessi, senza sovrastrutture, a cercare qualcosa che all’epoca sembra ancora non esistere sulla scena italiana. Come avete letto nella prima parte dell’intervista, sono molti gli input provenienti dalle altre culture di strada e da tutti gli altri ambiti dell’arte, come la musica e il cinema. Per questo, l’esigenza di giocare e avere a che fare con tutte quelle influenze li porterà a intraprendere la pratica dell’autoproduzione parallelamente a quella esplorativa e di azione nei luoghi urbani in una dimensione di avventura ogni volta diversa e affascinante. Creando una rete analogica, che con l’avvento di internet diventa digitale, amplificheranno il loro potenziale espressivo nella condivisione di esperienze con la moltiplicazione di connessioni e scambi a distanze prima impensabili.
4. Provenivate dagli anni ’90 che in Italia erano caratterizzati dalla forte presenza dei centri sociali a cui era collegata tutta una certa autoproduzione underground. Esperienze essenziali per voi, ma molto lontane dalla cultura Hip Hop americana e più vicine a quella Punk. Poi quando vi siete formati come OK nei primi del ’00 è arrivato FotoLog. Me ne vorreste parlare?

Subliminal Art n°1, cover 1995. ©108.
108: Sono due periodi diversi secondo me, il punk e i centri sociali come cose interessanti e vissute continuativamente sono più riferibili agli anni ’90. Io in realtà sono salito per la prima volta sul palco con un gruppo rap locale a 15 o 16 anni, ci chiamavamo LAK ed era il 93/94. All’epoca l’Hip Hop sembrava più punk del punk, una novità assoluta che conoscemmo tramite lo skate. In Italia era arrivato con le Posse, quindi con una base altamente politicizzata. C’erano anche gruppi veramente fighi come gli Isola Posse. Per un certo periodo era il fenomeno che caratterizzava i centri sociali. In ogni caso praticando lo skate ascoltavamo prevalentemente punk e hardcore. Quando il rap ha iniziato a diventare commerciale come quello americano con tutta la sua estetica macho, personalmente mi sono buttato tutto sul punk e su altre correnti musicali per me più interessanti. I centri sociali erano comunque un po’ diversi da quello che sono oggi, erano luoghi di incontro e di cultura, qui in Alessandria ce n’erano due, che ogni weekend facevano concerti e in settimana anche incontri e film. Per gente che all’epoca era adolescente come me è stato importantissimo. L’aspetto politico era d’avanguardia (le cene vegane per esempio) e sempre accompagnato da quello culturale. Mi ricordo che c’erano sempre i banchetti con i dischi e con i libri e vhs della Shake per esempio, poi ci venivano a suonare da tutto il mondo. Avevamo il nostro angolo internazionale a 5 minuti da casa. I primi graffiti belli in Alessandria li ho visti lì. Kalmo e Tnt da Casale già nel ’92 facevano cose che sono potenti ancora oggi. Inoltre, prima di fare un muro bisognava parlarne e a volte ci dicevano che imitavamo gli americani di colore, ma qui eravamo in Europa e non nel Bronx e la cosa all’epoca ci irritava parecchio, con il tempo però mi è servito a dar valore e pensare sempre a quello che facevamo. L’autoproduzione del periodo “fotocopie per necessità” in generale è alla base di quello che faccio ancora adesso insieme poi a molta arte visiva e non. Restando nel mondo dei graffiti dal ‘95 al ‘98 avevo fatto (con l’amico Tibo) 4 numeri di una fanzine che si chiamava Subliminal Art, tutta fotocopiata in 50-100 copie. Anni dopo è uscito il numero 5, avevo lasciato che alcuni amici di Genova continuassero la cosa con un magazine stampato, ma io non c’entravo più niente. Comunque parliamo del periodo pre-OK. Pira faceva già da anni i suoi “Fumetti della gleba” fotocopiando innumerevoli numeri e qualche volta gli davo una mano, visto che vivevamo insieme. Io in particolare facevo cassette e poi Cdr musicali autoprodotti, continuo a farli ancora oggi, musica e non musica underground. Punk, grind, black metal, noise, drone, ambient, sempre con copertine fotocopiate e tutto duplicato a casa (https://larvario.bandcamp.com/). Mi sono messo anche a serigrafare magliette con un mio amico, in modo iper grezzo, e facevamo bootleg di gruppi dark, industrial cose così, in bianco e nero. Ovviamente mi sono anche autoprodotto decine di fanzine e libretti fotocopiati come 108, specialmente quando era una cosa che interessava solo a qualche punk e a nessun altro, ma continuo a farne. Come tante altre cose, in Italia purtroppo non c’era una gran scena di fanzine e micro editoria, la cosa è un po’ cambiata negli ultimi anni credo. Con l’arrivo di internet, nel ’98-’99 insieme a Pira, ragazzo del computer, abbiamo fatto siti in html su spazi web gratuiti. Il primo sito con roba nostra si chiamava ABX3000. Quella era l’avanguardia con cui ci siamo connessi con gente come Stak, Honet e altri in giro per l’Europa. Direi che quello è stato il periodo d’oro dell’OK, primi anni ’00, poi è arrivato Fotolog, che è stato probabilmente il primo social, ma completamente diverso da Facebook. Lo aveva solo chi dipingeva o aveva bisogno di dire qualcosa semplificando le cose e creando una rete europea di gente che voleva andare oltre ai graffiti tradizionali. Da lì poi è nata la famosa “Street art” che poi si è evoluta (o involuta) in qualcosa di completamente diverso.

STAK anni 90,foto trovata in rete all’epoca. ©108
DEM: Fotolog ho iniziato ad usarlo dopo che si erano formati gli Ok. Credo di averlo cominciato ad usare nel 2003, quindi noi già dipingevamo anche come gruppo. Fotolog fu un modo per vedere nuovi stili e approcci all’arte fatta in strada, e poi a condividere esperienze di vita perché, entrando in contatto con un sacco di altri artisti, ho iniziato a girare di più, sia in Italia che all’estero e dall’estero venivano in parecchi a trovarmi. È stato molto positivo da quel lato lì ed è stato importante anche dal lato stilistico, perché ci siamo nuovamente contaminati con altri artisti che cercavano di sperimentare. Se già come Ok volevamo mischiare per fare delle cose particolari, con l’arrivo di Fotolog ci siamo fatti influenzare da tutta una serie di altri lavori ed esperienze di altri artisti. Per quanto riguarda i centri sociali, io andavo alle serate della Pergola, del Cox18 e del Deposito Bulk, li frequentavo Abbominevole, Fost, Mork, Ozmo, Flood e altri artisti e writers. Lì ho dato una mano ai ragazzi di Tora Bora (una specie di negozio di spray abusivo all’interno) e dello squat Malamanera ad organizzare il festival Street Madness dove erano venuti vari artisti di Milano, ma soprattutto, altri europei. Mi ricordo che la murata collettiva che facemmo in questo centro sociale fu una delle prime davvero sperimentali del Gruppo Ok. In quell’occasione c’era anche Zosen di Barcellona, a tutt’oggi un mio caro amico, col quale si parla tuttora molto. L’amicizia con lui mi ha permesso di andare spesso a incontrarlo e dipingere insieme anche a Kafre, Kenor, Tom14, Pyu, Ovni e altri artisti spagnoli. Molti di loro venivano dall’esperienza degli ONG, Ovejas Negras, avevano un forte aspetto politico e facevano delle murate coloratissime realizzate da diversi artisti contemporaneamente, gli stili si mischiavano e intercambiavano, in molti dei loro muri non riuscivi benissimo a distinguere chi avesse fatto cosa. Questo mi piaceva un sacco ed ha avuto una grande influenza su di me. Sempre attraverso Fotolog avevo conosciuto gli UNO, una crew svizzera di Neuchatel, che a sua volta faceva parte di un gruppo ancora più grande, gli ZOO (di cui ero membro). Gli Zoo, che avevano anche molti elementi in Francia, si erano praticamente formati attraverso questi scambi partiti dal social network.

STAK anni 90,foto trovata in rete all’epoca. ©108
Dr.Pira: Non seguivo molto FotoLog, ma il writing si sovrapponeva facilmente a qualsiasi network, essendo esso stesso una rete analogica. Forse lo stesso discorso si può fare con l’autoproduzione, che in fondo era già una forma di rete, o un modo per costruire reti, se preferisci. Avevo iniziato quasi contemporaneamente a fare fanzines di fumetti, distribuendole in giro ai concerti o all’università, dove capitava. L’ho sempre trovato un bel modo per canalizzare le idee e fare nuovi amici. Penso che nessuno di noi avesse un approccio politico di “controcultura” in tutto quell’ambito di attività. Era semplicemente divertente. Io e 108 avevamo anche fatto delle fanzines di graffiti all’epoca. Ho sempre pensato che quel modo di fare le cose fosse quello migliore, perché mi faceva sentire libero e di conseguenza mi faceva venire voglia di sviluppare le cose in modo più creativo. Sembra banale, ma il contesto è essenziale. In quel momento, in provincia, la totale assenza di esempi da seguire nell’ambito del writing (come in quello del fumetto “alternativo”) non ti portava a seguire lo scopo di diventare “bravo” o riconosciuto, ma piuttosto di procedere verso un’idea che ti eri fatto tu, in modo del tutto casuale. Per esempio, quando avevo iniziato a dipingere non conoscevo altri writer, ma mi ero fatto l’idea che tutti gli amici partecipavano alla creazione di un graffito. Al tempo andavo ogni giorno a skateare, e un giorno pensavo che sarebbe stato giusto avere dei graffiti nel posto in cui ci ritrovavamo: forse l’avevo visto in qualche film tipo Trashin’ – corsa al massacro. Quindi, ho raccolto i soldi tra gli amici che frequentavano il nostro punto di ritrovo, di fronte a una scuola media, perché avrei fatto un graffito che sarebbe stato di tutti. Non avevo calcolato che qualcuno della scuola avrebbe potuto sospettare che l’avessimo fatto noi, pensavo che “si facesse così”. Dopo qualche anno, quando ho conosciuto 108, sono rimasto shoccato dal fatto che i writers si pagassero le bombolette da soli e dipingessero in posti che non avrebbero potuto vedere ogni giorno. Avevo imparato una cosa nuova. Questo spiega come abbiamo fatto le nostre scelte da lì in poi: non avevamo idea di come si facesse né l’autoproduzione, né il writing, semplicemente facevamo delle cose perché pensavamo che più o meno “si facesse così” – e innanzi tutto perché era divertente.

Stcker di 108, 2001. ©Mondo
Mr.Mondo: Non ho mai utilizzato Fotolog, My Space o ogni altra piattaforma digitale dell’epoca. Mi sono affacciato a Instagram negli ultimi anni. Mi piace perché si trova un sacco di materiale, ma mi fa anche un po’ strano. Mi sentivo più figo quando guardavo solo qualche fanza e frequentavo gente o scambiavo foto solo di persona. Per quanto riguarda l’autoproduzione, avevo solamente fatto una mini fanzine nel 2003 chiamata Triceratops dove avevo messo più che altro foto di amici e di gente che trovavo molto innovativa in quegli anni. Vista adesso sembra quasi una fanzine di Street Art, ma in quegli anni il movimento non era ancora nato e l’uso di simboletti o adesivi di alcuni writers era una cosa che mi intrigava e sembrava fresca. Secondo me, ci sono delle chicche, come il primo speciale a Blu quando ancora faceva i puppet a bomboletta e Dumbo quando disegnava degli omini con le teste a palazzo. I centri sociali li ho frequentati poco e più che altro proprio per andare a dipingere con gli amici in tranquillità. Non sono mai stato vicino ai movimenti politici e ho frequentato realtà più prettamente vicine ai temi dell’ambientalismo e del vegetarianesimo. Purtroppo la bomboletta inquina sotto tutti gli aspetti e con l’ambiente non c’entra nulla, ma è bella e irresistibile. La uso ancora, cerco di compensare un po’ riempiendo i pezzi e i fondi spesso a rullo.
Punto: Pur frequentando i centri sociali, noi eravamo lontani e in generale piuttosto critici verso l’attivismo politicizzato. La nostra era una passione estetica verso i colori che aveva solo bisogno di muri grandi in posti dove nessuno ti poteva infastidire; i centri sociali erano perfetti per questo. Io non ho mai prodotto materiale che non fossero i disegni e le foto, che tenevo soprattutto per me.

Stcker di Sasso. Suede, 2001. ©Mondo
Alfano: Sono stato introdotto a FotoLog da Dem, che già lo usava da diverso tempo. E’ stato uno strumento decisamente utile, soprattutto per stringere relazioni con nuovi artisti (o in ogni caso gente che faceva graffiti/dipingeva sui muri) sparsi per il mondo. Prima di FotoLog potevi conoscere gente affine frequentando le jam o le yard, tramite reti di contatti, oppure scrivendo ad Aelle (una delle prime riviste hip hop in Italia) che aveva una sezione dedicata agli annunci di writers di varie regioni. FotoLog è stato indubbiamente uno strumento che ha facilitato e colto la necessità di uno scambio culturale più ampio rispetto agli standard di quel periodo. Grazie a FotoLog, ad esempio, ho avuto modo di conoscere il lavoro della CAP crew (che è stato per me un incontro fondamentale in quegli anni) e altri “personaggi” decisamente interessanti.

Sticker Triceratopo. Mr.Mondo, via vespri siciliani. Milano 2002. ©Mondo
Aris: In effetti il legame con la cultura hip hop per me è stato più forte soprattutto nella seconda metà degli anni ’90. Ascoltavo i gruppi italiani, come Colle der Fomento, Sangue misto. Oltre alla musica per me era importante comprendere i testi, anche per questo i gruppi americani mi interessavano meno, non riuscivo a seguirli, poi nella scena della mia città c’erano alcuni amici che rappavano, andavamo ai loro concerti. Molto spesso le feste erano nei centri sociali, che anche per i graffiti erano diventati punti di incontro, zone franche dove si poteva dipingere anche in pieno giorno e si trovavano sempre nuovi lavori di altri da vedere. Le serate Hip Hop si alternavano a concerti punk o a musica tecno ed era inevitabile che ci sarebbe stata una contaminazione. Poi a partire dagli anni ’00, con la diffusione sempre maggiore di Internet e dei social, il cambiamento ha avuto un’accelerazione esponenziale non solo per la circolazione delle foto, ma anche come luogo d’incontro. Nei primi anni in cui facevo graffiti ci si incontrava in qualche piazza, al parco, nelle hall of fame, portando dietro il book dei bozzetti per confrontarsi, ascoltando musica, passando del tempo insieme. Piano piano molto di tutto ciò si è spostato online, si sono ampliati i confini geografici, il confronto si è allargato a un pubblico più ampio. Come per tutti i cambiamenti ci sono stati vantaggi e svantaggi, per esempio uno degli aspetti dei graffiti è quello di essere illegale e fuori dagli schemi, oggi queste due caratteristiche devono passare attraverso un canale caratterizzato dal tracciamento, dal controllo e la raccolta dei dati, aspetti con cui, prima di altri, il mondo del writing ha dovuto farci i conti. Personalmente ho avuto la mia pagina Fotolog, ma non la utilizzavo molto, perché non mi sembrava lo spazio adatto per mostrare i miei lavori, invece lo usavo come spazio per seguire i writer che mi piacevano di più e tra questi c’erano diversi membri del gruppo OK. In seguito, grazie a Flickr, ho deciso di mostrare di più anche le mie cose, così mi è capitato di scambiare chiacchiere con diverse persone con le quali sono nati dei rapporti di amicizia e delle collaborazioni.
5. Ad interessarmi sono due le declinazioni che può assumere lo spazio urbano: “pubblico, ma non-civile” VS pubblico-abbandonato. Avete agito in entrambi, ma quale prediligevate e perché?

Triceratops zine, 2002. ©Mondo
108: E’ una cosa legata all’età credo. Quando ero più giovane volevo fare solo lettere e metterle dove erano più visibili. Poi c’è stato il grande periodo degli adesivi e dei poster, anche in quel caso non aveva alcun senso attacchinare in zone abbandonate, anzi gli stickers ci davano la possibilità di attaccarli in pieno giorno in pieno centro. Poi man mano ho preferito andare negli spazi abbandonati, ma diciamo che restando nel campo dell’OK non è mai stato un problema, ci piacevano entrambi gli aspetti dello spazio pubblico come ci piaceva fare una tela, un video o una fanzine. Almeno io me lo ricordo così e soprattutto essendo OK non ci è mai piaciuto il vandalismo estremo.
DEM: Comunque c’è stato un momento in cui come Ok giravano anche parecchi treni. Io più che treni, facevo tante cose in luoghi abbandonati e lungo linea ferroviario. Comunque sì, abbiamo agito in entrambi i luoghi perché ci piaceva tutto. Perché, per quanto riguarda la parte illegale, l’atto in sé era anche abbastanza antisocietà; per quando riguarda gli spazi abbandonati, invece, trovavi quella dimensione in cui potevi esprimerti e fare lavori molto più grandi rispetto a quello che era stato fatto prima e avere più tempo e quindi un’assoluta tranquillità per poter sperimentare. Poi ci piaceva la dimensione dell’esplorazione, infatti con molti andavamo nelle fabbriche abbandonate, facevamo anche foto, osservavamo pure le architetture. Poi, devo dire che, soprattutto nella zona da dove provenivo io, c’era davvero la possibilità di avere a disposizione degli spazi infiniti e dei muri con già una loro storia (fabbriche degli anni 30/50/60/70), che secondo me erano più belli e anche romantici da dipingere rispetto alle hall of fame o ai capannoni industriali, in cui comunque dipingevamo ugualmente. Se entri in una fabbrica abbandonata, il tempo è un po’ come se si fermasse e hai modo di concentrarti maggiormente su quella che è la forma artistica che uno vuole mettere in piedi, in più c’era anche la possibilità di stare lì per ore ed ore e poter fare anche delle mezze festicciole.

Gruppo Ok, Murata al Deposito Bulk di Milano, 2004. ©DEM
Dr.Pira: Mi ha sempre divertito di più il contesto illegale, per l’assurdità dei luoghi e delle situazioni e la dimensione di avventura che mi faceva vivere. Mentre vagavo nella nebbia con la temperatura sottozero alla ricerca di un deposito, che mi sembrava di aver visto da un treno, mi veniva sempre in mente che quello che stavo facendo era completamente pazzo – per qualche motivo, come ti dicevo prima, mi sembrava più logico lavorare in una stazione spaziale, nel 2001 – e collegare le due idee mi creava un cortocircuito mentale che mi portava a pensare che avrei potuto fare qualsiasi cosa in quel momento, o nella vita. Non so spiegartelo meglio di così. A Berlino andavo a dipingere i treni con una sorta di task force militarizzata (che è l’unico modo di farlo senza venire arrestati da quelle parti) e quando arrivavo al treno pensavo: beh, tutto questo è così pazzo che ora, già che ci sono, disegnerò lo sfondo di mattoni sul treno. Anche le jam e le hall of fame mi piacciono, ma per un motivo diverso: lì la creatività è stimolata dal fatto che, qualsiasi cosa disegnerai, stai innanzitutto passando un bel pomeriggio tra amici. I luoghi abbandonati li ho frequentati di meno, ma mi piacevano anche quelli, era un bel modo per andare in posti che altrimenti non avrei mai visto.
Mr.Mondo: Personalmente ho sempre cercato di dipingere su muri molto visibili. Mi è capitato pochissime volte di farli in posti abbandonati, che magari risultassero molto belli in foto, ma che non si vedevano. Sicuramente dipingendo in provincia hanno meno visibilità. Spesso, anche se li vedono, sono così disinteressati ai graffiti che è come se non li vedessero. Però ci tenevo e ci tengo ancora a farli in luoghi di passaggio e dove è difficilissimo che vengano buffati. Mi piace passare in bici davanti ai posti dove ho dipinto anche a distanza di tempo. Sorseggiare una bibita davanti un mio pezzo dopo qualche giorno che l’ho fatto è il massimo della goduria. A volte mi chiedo se in effetti mi piaccia veramente dipingere o più che altro mi piace sciallare e bermi una tisana davanti al pezzo vedendo la gente che ci passa vicino anche se distrattamente.

Gruppo Ok, Particolare della murata al Bulk di Milano, 2004. ©DEM
Punto: Credo di aver agito poco sull’abbandonato, ma non facevo molta attenzione al valore dello spazio urbano. Volevo disegnare, e farlo in un posto abbandonato rischiava di voler dire che sarebbe stato difficile rivedere il mio disegno, cosa cui io tenevo molto. Quindi la scelta cadeva soprattutto su posti che potessero essere visibili da me, a prescindere da quale fosse la declinazione dello spazio urbano su cui agivo. Inoltre ho disegnato molto sui treni, che hanno un ruolo diverso nel paesaggio urbano.
Spot: Gli altri non so, per me l’importante era avere a disposizione un muro su cui fare qualcosa. All’epoca facevo già tele, ma non mi davano la stessa soddisfazione di un bel muro grosso da colorare. Di solito ci si beccava con qualcuno e si decideva il posto, altre volte si girava giornate intere magari in bicicletta, per trovare qualche edificio semi distrutto. Io facevo pezzi persino sotto i ponti dello Scrivia (il fiume, o ciò che ne rimane, di Tortona). Luoghi in cui non sarebbe passato nessuno se non qualche tossico o qualche segaiolo solitario. Non era solo marchiare il territorio, si va be c’era un po’ anche quello, ma per poesia; era un desiderio irrefrenabile di dipingere, era solo quello. Di un sacco di pezzi non ho nemmeno le foto, e comunque c’erano già le camere digitali all’epoca, erano appena uscite e io ce l’avevo, ma non era quello lo scopo. Quei pezzi sono persi per sempre, o i muri saranno scrostati, o non ci saranno nemmeno più i muri. Ma non è mai stato un problema, quello. Quando avevo fatto un muro ero felice. Se poi lo si era fatto insieme a qualcuno, di solito si passavano sempre dei momenti piacevoli. Per me quella era la cosa principale. Poi ricordo l’avvento del Fotolog, li iniziai a condividere qualche foto dei pezzi, ed era figo perché la gente si esaltava. Io facevo un pupazzetto storto che diceva “vi odio tutti” e alla gente piaceva. Cioè come fai a non prenderti bene?

Spot in azione al Bulk. Milano 2004. ©Spot
Alfano: Ho agito trasversalmente in entrambe gli ambiti fino al 2004/2005. Successivamente mi sono approcciato alla pittura murale di grande formato, spinto anche dall’esigenza di esprimere nuovi contenuti e di trovare un veicolo utile anche a dare sfogo a ciò che si potrebbe definire disagio esistenziale (o investigazione del malessere). Per fare ciò era necessario avere molto spazio e tempistiche elastiche (mi è capitato di lavorare nello stesso spot, sullo stesso lavoro per diversi mesi). Inoltre in quel periodo ero piuttosto povero e dalla mie parti (basso lodigiano) era il periodo in cui sono esplosi i cantieri dell’alta velocità, dove l’RFI abbandonava tonnellate di materiali e strumenti di cui regolarmente facevo incetta. Questo mi ha permesso di dipingere molto e in grande. A questo contesto riconduco una tra le fasi più importanti del mio percorso artistico ed esistenziale.

Murata Ok. Festival Montana, Modena 2004. ©DEM
Aris: Per i miei interventi spontanei di solito non mi è mai interessato molto lavorare in strada, in luoghi frequentati e ben visibili. Molte delle mie opere sono difficili da trovare, richiedono una ricerca, un’esplorazione, preferisco aree dismesse, fabbriche abbandonate, cisterne di metallo o vecchi edifici, dove in seguito all’abbandono la natura sta riprendendo il sopravvento. I primi anni in cui ho iniziato a dipingere personaggi mi interessava l’effetto inaspettato che poteva fare incontrare queste figure in questi luoghi proprio come se fossero gli abitanti che popolavano quegli spazi. La fase dell’esplorazione è molto importante, credo che nei graffiti anche la collocazione e il contesto siano parte dell’opera. Penso, ad esempio, ad alcuni pezzi che sono diventati leggendari più per i luoghi in cui sono stati fatti che per il loro stile, come Noce in piazza duomo a Milano. Quando dipingo in spazi abbandonati, le superfici su cui mi trovo a lavorare non sono mai neutre come un foglio o una tela bianchi. Ci possono essere irregolarità, crepe, saldature, piante, cambi di colore, scritte o loghi. Questi sfondi entrano a far parte del lavoro come un tutt’uno, non tenerne di conto significherebbe non considerare l’opera nel suo insieme. Cercare di nascondere queste irregolarità, coprendole col colore per farle sparire dallo sfondo, significa comunque subirne l’influenza; mentre modifico e deformo la composizione per inglobare e mascherare qualcosa, che non voglio appaia nell’insieme, sto facendo un compromesso. A volte proprio queste irregolarità sono state spunto per la costruzione di forme nuove. Negli spazi dimenticati l’opera ha un’interazione con lo sfondo, la conformazione del muro, l’ambiente e la realtà architettonica circostante, mentre nelle situazioni in cui lavoro in strada a contatto col pubblico cerco di tenere di conto di tutti fattori ambientali e anche, trattandosi di luoghi abitati, delle persone che si interfacceranno con l’opera nel quotidiano. La pratica di esplorare l’ho perseguita sia da solo che con i vari gruppi e oltre alla comune passione per i treni, direi che ci sono molte modalità di esplorazione. Dal mio punto di vista, la visione OK era un viaggio buffo e magico in luoghi comuni che nascondono meraviglie, per esempio ricordo di una passeggiata con 108 e Useless Idea nei bunker sopra Genova.
6. Le azioni di allora erano meno consapevoli di quelle di adesso. Quali erano le vostre riflessioni di allora in relazione a quelle di adesso più consapevoli riguardo la riappropriazione di uno spazio urbano come atto politico attraverso un segno lasciato sui muri urbani e che differenza c’è, se per voi esiste, tra l’agire nella prima e nella seconda tipologia di spazio urbano?

Particolare della murata Ok. Festival Montana, Modena 2004. ©DEM
108: Sinceramente non ho mai pensato, nemmeno a 20 anni, che spaccare un muro di una casa appena dipinto o di un palazzo storico fosse una cosa giusta. A volte facevamo dei giri di tag e bombing, ma penso fosse una cosa precedente all’OK. In ogni caso, credo che quello sia il centro della cosa, quando fai graffiti ci sei dentro ed è impossibile capirlo se sei fuori. Non credo ci sia niente di politico in quello. È bello da fare e basta. Questa cosa può essere letta in modo sociale e quindi anche politica, ma non è direttamente politica, non ho mai capito chi dice che lo sia. Sto parlando di tag, non di slogan politici. Penso sia una conseguenza dell’alienazione e della direzione sempre più individualista verso cui sta andando la nostra società, per cui sentivamo il bisogno di affermare noi stessi anche scrivendo il nostro nome in giro e facendo vedere quello che eravamo capaci di fare senza dover passare tramite i soliti giri. Penso che quello sia stato un punto fondamentale per l’OK e per quel periodo lì. L’atto politico della riappropriazione degli spazi per me è legato al dipingere negli spazi abbandonati, è l’equivalente di occupare una casa abbandonata quando uno non ha un tetto sotto a cui dormire. In Italia in particolar modo l’arte e la cultura sono considerati come la cosa più inutile, messi sempre all’ultimo livello. Non esistono laboratori pubblici, studi e spazi in cui gli artisti, specialmente i giovani, possano lavorare e organizzare eventi. Questa situazione è inammissibile e gente come noi non ha mai voluto abbassarsi a fare i ruffiani, quindi credo che prendersi quegli spazi sia la cosa più giusta da fare per noi, tra l’altro siamo stati i primi visto che venivamo da una delle zone più industrializzate e poi dismesse d’Italia. L’arte contemporanea ci sta arrivando adesso, scopiazzando quello che gente come noi ha fatto per decenni. Adesso come adesso lo preferisco sia dal punto di vista estetico che concettuale, ma non si può affrontare un discorso così complesso in una risposta sola.

Particolare della murata Ok. Festival Montana, Modena 2004. ©DEM
DEM: Più che “meno consapevoli”, il motivo che ci spingeva a dipingere era il volersi esprimere liberamente e “senza nessuna regola”. Tutto era abbastanza impostato e cercavamo di uscire dagli schemi e canoni stilistici dell’epoca, ma la consapevolezza di quello che stavamo facendo, secondo me, è arrivata dopo, prima c’era l’atto in sé, si dipingeva per necessità personale, non per altri scopi. A un certo punto ci siamo resi conto che un po’ lo facevamo anche apposta, dare fastidio agli altri writer, attraverso un uso degli spray diverso. Ci riconoscevano per determinati tipi di stili, che abbiamo in parte lasciato per cominciare a fare dell’”altro” con pezzi che stilisticamente non “capiva” nessuno (alcuni nemmeno noi 🙂 ). Di base però lo facevamo per stare bene, per stare insieme divertendoci e sperimentando, senza nessun finto intento di ribaltare il sistema o cambiare le carte in tavola del writing e senza aspettarsi di contaminare le persone che vedevano i nostri lavori. Sapevamo benissimo che non sarebbe cambiato un cazzo. In un modo o nell’altro poi è diventato anche un atto politico, ma non nasceva come tale o con questa consapevolezza. Non era riappropriazione dello spazio urbano. Ciò che ci interessava era esprimere noi stessi, soprattutto cercare di farlo nella forma più pura e senza schemi dati da altri. Quello che dicevamo era: stiamo insieme, sperimentiamo, osiamo! Soprattutto osare e fare cose idealmente mai fatte prima da altri, o almeno provarci, era importante non porsi nessun limite.

DEM e Alfano. 2004. ©DEM
Dr.Pira: Non ho mai considerato il concetto di appropriazione rispetto ai graffiti. L’idea di appropriarsi o riappropriarsi di qualcosa credo sia legata agli ambiti che concernono la “sopravvivenza”, nel senso più ampio del termine. Per esempio, se vuoi che il tuo nome sopravviva alla concorrenza degli altri writers e delle altre crew, allora tendi a pensare che devi “prenderti” dei muri o dei treni. Noi non avevamo quel genere di problema, specialmente all’inizio, perché dipingevamo in provincia ed eravamo gli unici a farlo in quella zona. Quando incontravo un altro writer, lo consideravo subito un potenziale amico: avevamo un sacco di cose da dirci in più rispetto a un mio compaesano. Lo stesso mi capitava se conoscevo un altro skater o qualcuno che ascoltava la mia stessa musica. Ho viaggiato parecchio da solo in quegli anni (tra l’altro, pre-internet) e per prima cosa cercavo un negozio di bombolette, uno skate shop o qualche posto dove suonassero, e lì conoscevo la gente del posto. E’ stato strano per me e 108 quando siamo andati ad abitare a Milano e abbiamo conosciuto un po’ di crew locali: erano amichevoli, ma spesso si sentiva un tono vagamente paternalistico – dopotutto eravamo i “ragazzi di campagna” – oppure un certo senso di sospetto. Tutto più che comprensibile, lì c’erano meno muri e meno yard pro capite, ma all’inizio non capendo la situazione mi sembrava strano: ma come, facciamo entrambi graffiti, questo non dovrebbe renderci automaticamente amici? Questo approccio ti dovrebbe far capire quanto non lo consideravo un atto politico. Quando incontravo altri writer e si andava a dipingere, per me era una fantastica gita, senza nulla togliere all’interesse che ho dal punto di vista puramente artistico, del disegno, ma piuttosto togliendolo alla spinta politica. Credo che quando parlavo del writing in termini politici, all’epoca, era solo per cercare di sedurre le ragazze antagoniste (con scarsi risultati, tra l’altro). Per quanto riguarda l’agire in spazi non civili o abbandonati, per me erano diversi solo rispetto al livello di rischio che implicava. Per una serata più avventurosa sceglievo i posti illegali, se invece volevo fare qualcosa di più rilassante andavo nei posti abbandonati. Anche se devo dire che a questi ultimi preferisco una bella hall of fame con un bel prato, alberi e magari un baretto vicino.

DEM e Alfano. 2004. ©DEM
Mr.Mondo: Ho sempre cercato e prediletto spazi visibili. Che fossero abbandonati o no non ci davo troppa importanza. Era più che altro la visibilità e l’impatto del luogo quando ci camminavi o passavi vicino ad interessarmi. Non direi che erano meno consapevoli di adesso, perché ero molto più addentro alla cosa e ovviamente anche attivo. La consapevolezza di adesso è solo perché sono più “anziano” e guardo alle cose che facevo in quel periodo da semplice osservatore. Non come se li avessi fatti io. Ultimamente sto facendo molti bozzetti. Direi quasi se non addirittura di più che allora. Solo che all’epoca dipingevo più di notte che di giorno e soprattutto dipingevo anche su metallo.
Punto: Io non vedo differenza tra l’agire su uno spazio non civile o abbandonato, tranne per il fatto che l’abbandonato è un esercizio, poco più di un disegno fatto in casa che però non rivedrò più. Per me non è mai stato un atto politico, ma un gesto privato. Lo facevo perché a me piaceva farlo e mi piaceva rivedere il mio disegno. Io passavo giornate intere insieme ai disegni che avevo appena fatto e non godevo particolarmente a farli vedere in giro. Ho sempre percepito quello degli altri come gesto di appropriazione di spazio pubblico e capisco che tale gesto di appropriazione possa essere letto come gesto politico, ma il mio era un gesto creativo privato che, per me, non aveva e non ha nessun valore nella dimensione pubblica. Succede anche oggi.
Spot: Non so proprio, non l’ho mai vista come una cosa politica e non ne sarei in grado. La mia era ed è una sorta di “ribellione” al conformismo, di cui la politica ne è solo una parte. Aver bisogno di grandi superfici per potermi esprimere mi portava automaticamente ai muri. Che a volte poteva essere un cosiddetto atto vandalico, me ne rendevo perfettamente conto, ma ciò che mi spingeva a questo era ben differente dal mero desiderio di “fare un dispetto”. D’altronde è sempre stato così nella mia vita. Prima disegnavo di nascosto da mia madre che voleva farmi studiare, poi ho continuato a disegnare di nascosto da “laggentenormalevaalavorare”. Come se il disegnare fosse una cosa che non va bene.

DEM, luogo-abbandonato. 2004. ©DEM
Alfano: Ho iniziato a disegnare sui muri spinto dalla curiosità. Nel posto dove sono cresciuto (un paese di 1200 abitanti in piena campagna) ad un certo punto è comparso sul muro del campo sportivo un disegno, fatto a spray, di Alberto da Giussano con la spada sguainata (logo della Lega Nord). Ai tempi non ne colsi il contenuto politico e mi limitai a chiedermi in che modo fosse stato realizzato. Da lì a poco venni a capo del dilemma ed iniziai a disegnare le mie prime lettere senza una particolare finalità. Nel tempo ho assunto un atteggiamento da “bomber”, taggavo ovunque e dipingevo molto in strada. Questo fu plausibilmente indotto da dinamiche adolescenziali di vario genere. Il passaggio alla pittura murale (vedi risposta 5) invece rispondeva ad altre necessità. Facendo autoanalisi del mio percorso, riconduco le esperienze del primo periodo (quello adolescenziale) alla necessità di mettere a nudo la mia individualità, di sviscerare una fragilità relazionale legata soprattutto ai contesti di gruppo (con i graffiti ho avuto le prime vere esperienze di socialità) e di scontrarmi con i dogmi familiari e di sistema. Questa attitudine ha sviluppato delle contraddizioni nel momento in cui la mia passione si è trasformata in mestiere. Ho passato un breve periodo a dipingere grandi muri su commissione per vari festival di arte urbana, ma ho smesso praticamente subito, poiché ogni volta che mi sono approcciato a questo genere di progetti, mi chiedevo ossessivamente se tutto ciò avesse senso per le comunità locali, quale fosse lo scopo di sbattere in faccia, tutti i giorni, alla gente qualcosa con la quale magari non aveva intenzione di relazionarsi. Trovo che questa prassi sia viziata da una sorta di impeto megalomane di curatori e artisti (in estremissima sintesi). Quindi ho iniziato a partecipare solo a progetti in cui era previsto un dialogo con le comunità locali, dove ci fosse esigenza di costruire qualcosa. Quindi, non trovo che dipingere sui muri fosse esattamente un atto politico, sicuramente, fino ad un certo momento, di controcultura. Credo che l’ultimo margine di evoluzione per l’arte urbana sia il lavoro di riappropriazione degli spazi delle comunità locali.

Aris, 2009. ©Aris
Aris: A parte forse proprio il primo periodo, non credo che le azioni del passato fossero poco consapevoli. Le fonti erano difficili da trovare, ma la curiosità era tanta e, proprio il fatto di essere in pochi e di interfacciarsi con qualcosa di nuovo, ti portava a farti più domande. Tutto era più complicato e per questo richiedeva più tempo. Come dicevo prima, all’inizio ero legato alla cultura Hip Hop, che aveva già una sua storia e i suoi insegnamenti, poi c’erano le “regole” del writing, che ti portavano ad essere responsabile per quello che stavi facendo. Per esempio nessuno del mio gruppo si sarebbe mai sognato di dipingere un treno prima di aver migliorato lo stile, essere diventato pratico attraverso lo studio su carta e su muro. Tutta la produzione di graffiti su treni passeggeri, bombing o pezzate con lettering, che ormai fa parte del mio passato, la considero separata dai lavori astratti sui merci, i puppet a figura intera contestualizzati in un ambiente, o le murate più complesse. Quello che è cambiato è soprattutto il pubblico di riferimento. Prima le azioni erano fatte per se stessi, per la propria crew e per la propria tribù, in questo caso, tra i vari fattori, parlerei di riappropriazione. Le opere erano parte di un mondo, di una comunità alternativa con delle regole tutte sue (con i suoi pregi ed i suoi limiti). Credo che a rappresentare un atto politico non sia tanto la questione di lasciare un segno nello spazio urbano, ma piuttosto quella di costruire quel mondo, quella comunità. Quando non faccio lettering di solito non lavoro nello spazio urbano, ma piuttosto in spazi in disuso o non luoghi. Invece, nel caso di wallpainting fatti per festival o convention, l’azione si svolge nello spazio urbano, all’interno di progetti più complessi dove l’organizzazione dialoga con le istituzioni, i cittadini e gli artisti. Diciamo che emanciparsi dal dogma ci ha dato una svagata consapevolezza nell’azione.
Fine seconda parte (2/3)
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Note a pie di pagina + -
OK IL GRUPPO E’ GIUSTO. TRA AUTOPRODUZIONE E PRATICA ESPLORATIVA DEI LUOGHI URBANI