Uno sguardo “disinteressato” - MoaiPress
Uno sguardo “disinteressato” 1
Fino agli anni Settanta/Ottanta i graffiti in Europa non esistevano. C’erano i “graffiti politici”, di propaganda, o tutto al più le scritte poetiche. Si trattava comunque di espressioni rivolte alla collettività con un fine sociale o, nel caso della poesia, uno scopo culturale.
I “graffiti” che invece intendiamo oggi, quelli cioè che vengono da New York e con i quali noi siamo cresciuti, sono una realtà totalmente differente, una manifestazione di una società fondamentalmente individualista, che tuttavia ci ha dato un’opportunità di espressione e, in un qualche modo, di “sopravvivenza”.

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È interessante pensare come tale fenomeno sia nato sul finire degli anni Sessanta proprio negli States, il paese più individualista e capitalista al mondo, in cui tutto può essere sacrificato in nome della scalata sociale e del profitto. In Europa quest’idea della società è arrivata dopo, con l’adozione definitiva del modello americano e con l’avvento, poi, anche dei graffiti.
Definire la natura del writing risulta ancora oggi difficile. L’atto di scrivere il proprio nome in modo non autorizzato in uno spazio altrui, sia che si tratti di un bene pubblico o privato, può essere visto come un gesto anarchico, ma, al tempo stesso, tale imposizione, che non prescinde da nessun dialogo, ha insito anche “un qualcosa” di autoritario o violento ed egoistico. L’argomento è delicato e risulterebbe fin troppo superficiale se si sentenziasse che i graffiti sono qualcosa di giusto o sbagliato.

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Piuttosto è interessante comprendere tale fenomeno in relazione ad un dato momento storico, considerandolo il sintomo di un certo cambiamento sociale.
Inoltre fare graffiti, almeno per noi, è stata una grande “via di fuga”. Portare in giro il proprio nome era sì un’affermazione sociale, ma anche un modo per uscire, metaforicamente e concretamente, da zone disagiate con mentalità provinciali, in cui la normalità era prendersi a botte allo stadio o sfondarsi di droga e per assurdo la cosa più sana sembrava andare di notte a fare i pezzi in yard.

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Gli anni Novanta hanno rappresentato un periodo denso di sperimentazioni e soprattutto di genuina inconsapevolezza. Eravamo in pochissimi a fare graffiti nella provincia piemontese e ciò significava che anche se copiavi quello che veniva dall’America o dalla Svizzera eri comunque parte di una minoranza incredibile che, in qualche modo, poteva essere considerata una forma di avanguardia. Conoscevi a memoria tutte le tag presenti nella tua città, e quando ne trovavi una nuova era subito caccia al writer domandandoti chi fosse. E quando non dipingevi, passavi i pomeriggi in stazione a fotografare i treni dipinti dagli altri, pur di avere un sorta di archivio di lettere, stili e pezzi differenti da poter studiare e rielaborare. Eravamo tutta gente interessata a qualcosa di creativo, anche se privi di chiari intenti artistici. Non c’erano pretese di guadagno, di fare carriera o di portare avanti un percorso in funzione di qualche tendenza o addirittura del mercato. Era ben chiaro a tutti che i soldi non si sarebbero mai visti, al massimo delle multe.
La differenze fondamentale tra quei primi anni e l’ecosistema odierno chiamato “street art”, sta nella maturata consapevolezza di sé, del proprio gesto. Consapevolezza che aggiunge un valore, artistico ed economico, e che quindi dimentica l’esigenza disinteressata per diventare una prassi, invece, “interessata”.

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Come tutti i movimenti e tutti gli “ismi” dell’arte, la definizione “street art” è arrivata molto dopo. “Cose strane” era come noi chiamavamo i primi poster, stencil e stickers, o i primi loghi che iniziavano a rompere il rumore di fondo ormai uniforme, e quindi innocuo, delle tag. Ekosystem li definiva “non hip hop graffiti” in quanto sembrava provenissero da una matrice differente, forse più vicina al punk. Tra le primissime “cose strane” vengono in mente i “sassi” di Pira, il “piede” di Suede, i “balconi” di Santy, i font in stampatello di Dumbo (leggibilissimo e volutamente non ermetico) o i poster di Abbominevole, nella Milano di fine anni Novanta, anticipati di qualche anno dai pionieristici loghi di Stak già presenti nelle metro romane nel ’95. Disegni che adesso possono sembrare consueti, ma che in quegli anni rappresentavano qualcosa di sconvolgente.

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In quel periodo nascono anche esperienze come l’OK Crew (108, Pira, Peio, Dem, Mr. Mondo, Blitz, Cook, Punto, Mine), in totale controtendenza rispetto ai vari manierismi di stile e all’atteggiamento gretto del graffitaro-gangster sempre più diffuso. Sono questi casi spontanei di sdoganamento del fenomeno, nati senza un’intenzione precisa ma solo come sperimentazione, che hanno portato alla futura pluralità di linguaggi sviluppati al di là delle ferree regole del writing.

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Stimolati dal nascente nuovo utilizzo dei media la scena si ampliò velocemente. Se per la diffusione del writing furono fondamentali le fanzine, le riviste di skate, o magazine come Aelle, che offriva una bella panoramica e nessuna selezione, per la nascente street art fu decisivo l’uso di Internet.

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I primi siti in Html ci permisero di mostrare quello che facevamo anche a gente che viveva in altri paesi. Ci si spedivano per mail le foto dei pezzi nonostante ci volessero alle volte cinque minuti per scaricare un’immagin e piccolissima, considerando che la connessione 56 KB/s andava sempre, al massimo, a 14KB/s. Si potevano vedere dei pezzi fatti in Scandinavia o in Francia dal proprio pc, in sostanza quello che prima si faceva andando fisicamente in stazione adesso si poteva fare virtualmente dal computer. Indipendentemente dai pro e i contro, si trattò di una rivoluzione.

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Poi arrivò Fotolog che completò il cambiamento. Si poteva caricare una sola foto al giorno ma si aveva l’opportunità di vedere tutto ciò che veniva fatto di nuovo nel mondo, o meglio in Europa, considerando che in quegli anni, guardavamo molto più agli europei che agli americani. In breve tempo quelle poche decine di persone che disegnavano diventarono centinaia. Gli iniziali eventi più spontanei come “Where is 101?”, “Happening Underground” o “Illegal poster art” organizzati spesso fra amici vennero affiancati da festival più strutturati e ufficiali.

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Osservando oggi con sguardo distaccato quel periodo viene da pensare come tutta questa storia della street art sia andata in una direzione poco interessante, o perlomeno verso direzioni più commerciali rispetto alla sperimentazione iniziale. Oggi trovi uno stile che funziona e vai avanti ad oltranza, oppure, al contrario, all’interno di ciò che fai, limi gli angoli, raffini la tecnica.

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Quest’idea di avere un oggetto e perfezionarlo all’infinito è però più un aspetto legato al design industriale, non alla sperimentazione creativa. Paradossalmente, in una sottocultura tendente a ghettizzarsi come quella dei graffiti, in cui l’ego aveva un’importanza primaria (ma anche il concetto di crew, molto importante) la voglia di sperimentare era invece decisiva. Passavamo dai graffiti razionali con le lettere più New York o tedesche possibili a stili inventati sul momento come il “nautilus” o lo stile “marmitte”, cose che non piacevano neanche ai tuoi amici, ma erano divertenti; era tutto uno scherzo che poi però produceva risultati (non pretesi) sorprendenti. Oggi, anche nelle nuove leve, c’è molta più professionalità, ci si approccia subito in modo quasi lavorativo.

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Ma i dibattiti quotidiani non trattano questi temi. Si parla tanto di riqualificazione, come se fare un “pupazzo” di quindici piani su un palazzo volesse dire riqualificare un quartiere. Si infuocano (ancora) polemiche sull’arte di strada in galleria, usando metafore come “rinchiudere la tigre in gabbia”, invece di comprende che ogni luogo ha un suo linguaggio e semplicemente si può fare arte, in modi e spazi diversi, dai treni al museo, dalla strada alla galleria.
Verrebbe da dire che c’è bisogno di più interesse e cultura, ma probabilmente non è neanche così. I matti e tutto il filone dell’Art Brut possono essere considerati tra i più geniali artisti, eppure generalmente non hanno una formazione culturale e si esprimono solo per l’esigenza di farlo.
Questa è arte totale, disinteressata, come poteva essere il primo periodo dei graffiti. Forse c’è bisogno di tornare a questo, abbandonare le logiche razionali del mercato e l’inseguimento della carriera artistica, sperimentare, divertirsi, non essere pretenziosi, avere, cioè, uno “sguardo disinteressato”.

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