From street to art - MoaiPress
Questo testo critico/emozionale si trova in una piccola pubblicazione edita nel 2014.1
La fanzine è una selezione di foto anni ’90 di situazioni legate ai graffiti, dove i graffiti si intravedono nello sfondo, non sono il soggetto principale; giovani writers in posa alle fermate dei bus, tag in posti assurdi, cazzate, superfici, emozioni e texture, libertà totale, gli anni novanta vissuti con un entusiasmo primario e incoscente.
Ho usato quelle immagini come contrappunto al testo che parla di un’attitudine che si trasforma in energia pura per poi diventare lavoro e solo nei migliori casi Arte.
Volevo parlare di come il writing fosse in qualche modo un atto puro, incontaminato, e di come l’arte urbana abbia trasformato questa trasparenza in ricerca artistica, molte volte strategica, non sempre onesta.
La mostra del 2014, per quanto piccola, era nel centro di New York, all’Istituto di Cultura Italiano, è stata la prima e unica collettiva internazionale di artisti italiani che nascono tutti in quell’humus per poi prendere difformi direzioni espressive.

© Simone Pallotta
C’è stato un tempo in cui l’arte non era importante. Un periodo storico in cui spinti da un istinto che nulla aveva di ancestrale, adolescenti di luoghi diversi si trovarono connessi in un atto di affermazione dell’Io più profondo. Stavano affrontando inconsciamente la realtà dell’essere generazione non sedotta da ideologie, corrotta e irreparabilmente svuotata dall’inconsistenza e dal silenzio che queste avevano prodotto. Una generazione senza eco.

© Simone Pallotta
La chiave di lettura di un tempo senza senso si è però materializzata nella riconquista di un’identità autogenerata, di un modello creativo autonomo in grado di sensibilizzare quel vuoto, di renderlo consistente, vincendo la scommessa di costruire qualcosa di buono e potente dal nulla che c’era sotto i loro piedi, nessuna spalla di gigante a sostenere il loro sguardo verso il futuro.

© Simone Pallotta
C’è stato un tempo in cui i graffiti, produzione di lettere che formano un nome che riflette una individualità reale, hanno ricostruito l’identità perduta grazie ad un atto personale. In una sorta di rifondazione interiore si sceglieva un nuovo nome per riposizionarsi nella società in base ad un’autonoma invenzione di un Se autoprodotto; punto di partenza per una nuova ideologia che aiutava a rifondare l’interpretazione del mondo stesso attraverso il valore della propria singolarità. Un atto libero e puro che ha cambiato il destino dell’arte, senza saperlo e senza volerlo.
È dando forma alla nostra singolarità che si produce arte, senza sapere di produrla, senza calcolare come quello che stiamo realizzando cambierà i canoni visivi così profondamente da produrre una rivoluzione estetica. I graffiti sono stati l’anno zero di una volontà automatica produttrice di situazioni generative, occasioni di espressione primaria, di un ritorno alla creazione come necessità.

© Simone Pallotta
Arriviamo ad oggi, qui e ora. Dall’istinto espressivo primordiale dei graffiti, privi di necessità e volontà artistica ma ricchi di espressività interiore, siamo giunti ad una generazione che crede nei suoi mezzi perché ha voluto e ha saputo attraversare nuovamente tutti gli stadi del pensiero creativo. Siamo di fronte a uomini che hanno razionalizzato l’urgenza espressiva delle origini a favore di una propria visione dell’arte, fino a concretizzare la loro posizione che pretende di essere unica e profondamente autoriale. Siamo di fronte ad artisti che devono essere chiamati tali perché non c’è più bisogno del contesto di partenza per connotarli, non c’è più solamente la strada ad accoglierli ma il mondo intero.

© Simone Pallotta
Nessuno parli di street art ma di artisti che amano la strada, luogo di nuove e più profonde emozioni.
Simone Pallotta
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